"Verso Medea" di Emma Dante al Napoli Teatro Festival
Quello che sorprende oggi nel teatro − in certo teatro, non in tutto il teatro senz’altro − è la totale assenza di un movente: un “perché” grande come una casa dovrebbe schiacciare, polverizzare una fetta dell’offerta spettacolare del momento. Troppo spesso, infatti, ci si ritrova fuori dai teatri pervasi dalla strana e frustrante sensazione che, in fondo, dello spettacolo al quale si è appena assistito, in fondo dico, se ne poteva tranquillamente fare a meno.
Medea è gravida, dunque assurge a simbolo della fertilità, una fertilità tutta mediterranea, meridionale nella fattispecie: siciliana e napoletana. Nella visione di Emma Dante Medea è ciò che resta di un principio femminile generativo all’interno di una dimensione tutta maschile e sterile del mondo, dove perfino il coro delle donne di Corinto è composto da maschi in abiti femminili. La scena è essenziale: sei sedie di legno in semioscurità per il coro e per la protagonista, all’estrema sinistra i musicisti che eseguono brani della tradizione siciliana dal vivo. Lo spettacolo, apparentemente, sembrerebbe inscriversi sul troncone di quella tradizione tardo-ottocentesca di recupero della tragicità in chiave rurale e ferina tutta nostrana, per intenderci: l’Abruzzo arcaico e selvaggio di D’Annunzio e la Sicilia primordiale di Verga. Questa Medea, infatti, è un po’ Lupa e un po’ Mila di Codro; sfruttata e tradita dal giovane amante, attraverso il delitto sancisce la definitiva separazione dei principî maschile e femminile, perpetrando, suo malgrado, il luogo comune, in linea del resto con il pensiero greco, di una dialettica tra passionalità e istinto muliebri e razionalità e sofismi tutti maschili.
Corinto è una terra sterile, come si accennava, e di fatto lo è la Grecia tutta poiché infeconda è la polis greca per eccellenza, vale a dire l’Atene di Egeo figlio di Pandione, che nella Medea di Euripide promette asilo alla barbara della Colchide in cambio di ubertoso futuro, sostanziando così, filologicamente, la scelta della regista di contrapporre i generi anche e soprattutto in ragione di un contrasto tra fertilità femminile e sterilità maschile.
Se gli ingredienti di base sono quelli della tragedia campestre di matrice simbolico-verista, tuttavia, qui non abbiamo il sostrato antropologico che, nonostante i loro enormi limiti estetici, pur sostanziava i progetti teatrali del verboso Vate della poesia italiana e del romanziere di Vizzini. Nello spettacolo della Dante il registro dialettale, che alterna il napoletano al siciliano, più che marca simbolica di un meridione arcaico e elementare è troppo spesso traccia di una brutale riduzione della cifra tragicamente umana e mitica del testo euripideo a schermaglia amorosa da sceneggiata, triangolo borghese rimestato in salsa popolare. Vessillo ne sono i contrasti tra un Giasone “guappo di cartone” e una Medea scosciata seduttrice sedotta e abbandonata, sostenuta nell’agone verbale dalla pioggia di “maleparole” che il coro lancia all’indirizzo di Giasone. Il tutto ha un vago afrore ammiccante che urta l’olfatto anziché stuzzicarlo con certi effluvi di spontaneità performativa, promessi soltanto dalla regista. Per quanto riguarda la musica dei fratelli Mancuso, il duo di musicisti offre un’atmosfera effettivamente evocativa e straniante ma che troppo spesso si scontra con la grana grossa della performance; a peggiorare poi la situazione ci si mette una sala, quella del Bellini, avvolta nella morsa di una calura davvero infernale che a lungo andare trasforma le liriche giaculatorie in dialetto siciliano in un torpore di morte apparente.
Un’ultima considerazione merita il titolo, facilmente fraintendibile. “Verso Medea” non indica, infatti, come banalmente si potrebbe pensare, la prima tappa di un progetto teatrale e laboratoriale sul personaggio tragico in questione; bensì, partendo dalla considerazione di Medea come di un luogo geografico tutto da esplorare e scoprire, esso sta ad indicare un viaggio, appunto, nel territorio del personaggio, una breve peregrinazione nell’animo della principessa della Colchide. Tale viaggio è da compiersi in un’unica soluzione e, ahinoi, è troppo breve e inconsistente per lasciarci quelle indelebili immagini paesaggistiche che il nostro spirito vacanziero cristallizza nella mente nei secoli dei secoli.