Teatro

Cosa c’è dietro al fallimento di Mary Poppins in Italia?

Mary Poppins
Mary Poppins

Avrebbe dovuto debuttare oggi, ma Mary Poppins in scena non ci andrà. Ha chiuso i battenti a cinque giorni dal debutto, sollevando polemiche sulla gestione, ma anche riflessioni sullo stato dell’arte di questo settore nel nostro Paese.

30 gennaio 2020. Davanti al teatro Nazionale di Milano, anche questa mattina, campeggiano manifesti che annunciano che questa sera debutterà Mary Poppins, il musical più strombazzato d’Italia, che da due anni miete consensi di critica e di pubblico.

Cronaca di una fine annunciata?

Ma cosa è successo, e perché ha chiuso anzitempo? 
I produttori (WEC, World Entertainment Company S.p.a) hanno rilasciato un’intervista a Il Giorno in cui parlano di costi eccessivi legati alla ricostruzione della scenografia a Roma che hanno depauperato i conti della società, ma il settore è piccolo e la gente mormora, e pare che a questo problema se ne siano sommati altri, sempre di natura economica.

> GLI SPETTACOLI IN SCENA <


Che a casa Poppins-WEC tirassero venti freddi si era già capito. Sembra che le precedenti produzioni avessero incamerato una serie di perdite consistenti, e che già prima di debuttare a Roma i conti non tornassero. Andati in scena ugualmente, lo spettacolo a Roma ha riscosso successo, con 3 milioni di euro di incasso, quasi 71.000 spettatori, e con le ultime 15 date sold out nonostante “le difficoltà produttive avute fin dall'inizio dalla WEC”, recita la nota diramata dal Sistina qualche giorno fa.

Tuttavia, la stessa nota specifica i dubbi che già circolavano: “Già a luglio la produzione di Mary Poppins versava in serie difficoltà, tant'è che il Teatro Sistina è intervenuto per sostenere la produzione e permettere di proseguire. Ancora a ottobre la produzione rinviava di una settimana il debutto per le proprie difficoltà, causando un danno al nostro teatro. Questa è una chiara evidenza di come i problemi venissero da lontano”, ha dichiarato Massimo Romeo Piparo, Direttore Artistico del Teatro Sistina.

Massimo Romeo Piparo


Negli ultimissimi giorni prima del debutto la situazione è precipitata: WEC ha provato a fronteggiare la crisi di liquidità chiedendo supporto a Stage Entertainment, la multinazionale olandese proprietaria del Teatro Nazionale, che era pronta ad accollarsi le 54 repliche rimanenti a Milano. Tuttavia, Disney e Mackintosh si sono opposti alla messa in scena con la cessione a Stage Entertainment ed è quindi saltato tutto a cinque giorni dal “via”.

Quando un successo fallisce

Anche la Mary Poppins italiana, Giulia Fabbri, ha espresso il suo dispiacere legandolo a delle riflessioni più ampie.

“Il teatro in Italia soffre, e il musical da noi è il cugino imbarazzante del teatro: è un genere preso in prestito dai paesi anglosassoni, perché è in mano a privati che spesso e volentieri non sanno quello che fanno e si fanno la guerra e dispetti tra loro. C'è tanto ego, che porta al non aiutarsi l'un l'altro per il bene del settore, ma al godere delle "disgrazie" altrui”, spiega Giulia.

Giulia Fabbri


“Noi lavoratori dello spettacolo non siamo tutelati, esiste un contratto nazionale che dovrebbe essere rispettato dalle produzioni, ma poi salta sempre fuori la scusa dei tempi difficili. Se le produzioni non hanno soldi per allestire uno spettacolo in maniera degna, semplicemente non dovrebbero farlo: le società dovrebbero unirsi per creare insieme prodotti di alto livello, che avvicinino sempre più persone al teatro musicale facendo venire voglia di tornare a teatro”.

“E poi il nostro Paese dovrebbe rivalutare la cultura, far studiare la musica e la storia dell'arte nelle scuole, ma c’è bisogno di un atto di umiltà da parte di produzioni e direttori artistici, e di persone che combattano per condizioni di lavoro adeguate, perché questo è un lavoro a tutti gli effetti: noi ci siamo ritrovati a casa da un giorno all'altro. Io ho sentito la necessità di chiedere scusa a chi aveva comprato un biglietto, perché mi sento responsabile nei confronti di chi mi viene a vedere, e perché non potevo non dire nulla davanti ad una battuta d'arresto così eclatante”, conclude la Fabbri.

Giulia Fabbri


Più duro è il commento di Alessandro Parise, che in Mary Poppins interpretava Mr. Banks: “Noi del cast ci abbiamo messo la faccia, energia, sacrifici enormi oltre il limite, nonostante stipendi arretrati, pagamenti in ritardo, prove extra per garantire il massimo risultato; nonostante tossi, mal di gola, febbri, stanchezza psicologica dovuta alla situazione. Gente che ha rinunciato ad altri lavori… è inaccettabile ricevere una mail glaciale dalla produzione a cinque giorni dal debutto, con case a Milano già pagate. Non c’è stata umanità. Noi peraltro fino al 15 marzo siamo sotto contratto con WEC in esclusiva, e non possiamo nemmeno accettare altri lavori. E dalla produzione tutto tace.

Ma al di là di questa grande delusione e amarezza, io lo posso dire: questo spettacolo era davvero eccezionale, il primo musical in Italia di livello broadwayano, dove lo stesso Mackintosh ha attinto da noi per rimettere in scena il suo Mary Poppins inglese”, conclude Parise.

Alessandro Parise

Il raddoppio dei musical negli ultimi 10 anni

Eppure il fenomeno musical negli ultimi dieci anni ha più che raddoppiato le proposte. Basti pensare alla stagione 2008-2009, che ha avuto in cartellone nelle varie città 15 titoli, e a farla da padrone era la Compagnia della Rancia, con quattro produzioni nuove l’anno, più la ripresa di Pinocchio, con Robin Hood re delle tournée (30 città toccate), contro i 36 della stagione 2018-2019, dove se ne sono prodotti di più, ma con tournée brevi, dove i più girovaghi sono stati gli Oblivion con La Bibbia riveduta e scorretta.

Nel 2018 il volume d’affari del musical è stato (dati SIAE) di 42.863.485,71 euro (con il Teatro con 231.257.201,52 di euro), per un totale, nelle varie arti aggregate (balletto, lirica, circo, arti varie, burattini e marionette), di 472.772.225,24 euro. 
(Qui il nostro articolo: Lo stato di salute dello spettacolo in Italia)


Di anno in anno le produzioni si sono arricchite di scenografie imponenti – che se da un lato valorizzano visivamente lo spettacolo – dall'altro complicano le trasferte, impoverendo le produzioni.

Italia, Broadway e West End a confronto

Ma all'estero come fanno? E perché da noi ci sono tutti questi problemi?
Innanzitutto bisogna considerare che il musical è un genere teatrale che risente molto della presenza sul territorio di strutture idonee a ospitare allestimenti scenici molto impegnativi; tuttavia, in produzioni di questo calibro sono aspetti che andrebbero preventivati per non far collassare il business plan.

La faccenda potrebbe essere riassunta con la frase da utente medio “l’Italia non è ancora pronta agli spettacoli stanziali” (cioè dove il pubblico deve spostarsi, come succede all'estero); è d’obbligo però pensare a cosa succede nella vicina Londra: il solo Cameron Mackintosh – che negli ultimi 50 anni ha realizzato un numero di musical superiore a quello di chiunque altro produttore al mondo – possiede otto teatri restaurati ad hoc che ospitano le sue produzioni. I suoi tre capolavori (Les Misérables, The Phantom of the Opera e Cats) sono i musical più a lungo rappresentati della storia.

Cameron Mackintosh


Poi c’è il fattore lingua: Londra e New York sono un polo attrattivo sicuramente diverso, per la lingua e per il numero di turisti. L’inglese – in barba al tentativo dell’esperanto – è la lingua universale, senza considerare il numero stroboscopico di turisti disposti a spendere, e il velocissimo ricambio di popolazione – fattori che in Italia sono sicuramente più stagnanti.

Solo un fatto culturale?

Che l’Italia abbia messo la cultura in fondo alla lista è ormai assodato. I tagli hanno penalizzato il settore, che rischia di essere affossato definitivamente; scarseggiano inoltre i contributi a istituzioni importanti. Di fatto, la cultura rappresenta circa il 4% della spesa mensile delle famiglie italiane, mentre il settore culturale e creativo in Italia pesa per il 2,6% sul Pil nazionale, con un Pil di circa 40 miliardi di euro.

Ancora una volta la Manovra non prevede alcun intervento strutturale per l'ambito culturale e, tra le misure, rispetto al 2019 le risorse sono state ridotte di 80 milioni di euro. Di contro, è stato istituito il Fondo per la Carta Giovani Nazionale (CGN) con circa 5 milioni di euro l’anno fino al 2022 per i giovani tra i 18 e i 35 anni, che garantirà una serie di agevolazioni anche per i teatri.

Quanto al teatro, è pur vero che in Italia per tanti anni ci siamo assuefatti a un modus operandi stantio, con sempre gli stessi titoli e senza una vera drammaturgia contemporanea (che di fatto ha allontanato i giovani dalle sale); tuttavia è altrettanto evidente che siamo un paese che spende milioni di euro per il calcio, ma non per la cultura.

L’incidenza del fattore economico

Incide, eccome se incide. Tornando al paragone con i cugini d’oltremanica, nei paesi anglosassoni c’è un’industria che in Italia non c’è: noi ci adattiamo a degli spazi, mentre laggiù li costruiscono ad hoc; noi non abbiamo la lunga tenitura, che permette di ammortizzare i costi di gestione, e non abbiamo neppure mecenati che investano nel teatro – altro fattore di grande rilievo all'estero.

Lyceum Theatre di Londra


I nostri teatri hanno posti limitati, e senza grandi teniture è matematica: si incassa meno. In più, persiste la radicata abitudine del pretendere l’omaggio e la riduzione, che l’italiano medio considera normalità, mentre all'estero si spendono anche 300 sterline per una prima fila di un musical. Non da ultimo, a questo si deve aggiungere che l’Italia è un paese povero, dove è impensabile che una famiglia media di quattro persone spenda trecento euro per una serata a teatro. Certamente, il pubblico è disposto a spendere se il prodotto è di qualità, ma per fare qualità servono produzioni solide: in buona sostanza, un gatto che si morde la coda.

Al di là del colpevole, nel caso specifico di Mary Poppins si tratta di un fallimento per tutti: poteva davvero essere la porta per un futuro diverso del genere e per alzare l’asticella. Ma, di fatto, abbiamo perso tutti.


Articolo di Fabienne Agliardi, con la collaborazione di Roberto Mazzone.

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