Teatro

Diario di Sé, occasione persa nel labirinto di Anais Nin

Diario di Sé, occasione persa nel labirinto di Anais Nin

Il progetto ripercorre il rapporto che la scrittrice, danzatrice, poetessa, modella, ha avuto con suo padre, ma non trasmette vibrazioni né reazioni empatiche.

Il progetto, l’idea, sembra molto interessante. Diario di Sé nel labirinto di Anais Nin intende ripercorrere il rapporto che la scrittrice, danzatrice, poetessa, modella, e per un breve periodo anche psicanalista americana ha avuto con suo padre e, ampliando, con il mondo maschile. Rappresenta il tentativo di portare in scena una storia autobiografica, partendo dal diario della scrittrice americana in cui lei annotava, nei momenti più quotidiani, i pensieri e le riflessioni della sua vita (l’opera completa sono 150 volumi): il diario diventa teatralmente il dialogo tra Lei (interpretata da Vanessa Gravina) e il padre (interpretato da Graziano Piazza). Un testo nuovo, dunque, scritto da Luca Cedrola e portato in scena con la regia di Bruno Garofalo.

Gli ingredienti ci sono tutti: da una parte il tema forte, ancor più per gli anni trenta a cui appartiene, di una vita estremamente condizionata dal padre, dalla sua assenza, che lei cerca di colmare raccontandosi nel diario e poi dall’altra la potenziale universalità dell'amore/odio che riguarda un po’ tutti i rapporti padre/figlia. In scena, tra tende bianche moventi, in un salone pieno di specchi, Anais incontra suo padre. A distanza di anni rispetto alle parole di lei bambina, in immagini proiettate a inizio spettacolo, in cui dichiara di scrivere il diario per sentire suo padre vicino. Tra i due scoppia la riscoperta di una sintonia, di un’empatia profonda, da artisti. Sono simili, in quella ricerca incessante di sensualità. Lei è la donna perfetta per il padre. Lo spettacolo racconta con grande dovizia questo rapporto morboso, che porta al concedersi totalmente l’un l’altro, pare. Fino alla liberazione di lei, al rinnegare tutto questo legame che parte dal riuscire a vederlo così com'è: “io ti odio perché tu mi hai resa uguale a te”. Lui si dispera, la crudele ora è lei, che si emancipa così da questo rapporto. Lei che abbandona. Hanno sapor retorico le parole finali in cui lei dice “ Piango perché ho perso il mio dolore e non sono abituata alla sua assenza”. Sipario.

Dalla teoria di un progetto interessante alla pratica ci passa in mezzo il teatro, il concetto che se ne ha e il modo di costruirlo. Certo il tema è forte, ma non per questo dev’essere recitato in tono retorico, alquanto ampolloso e nello stesso tempo a volte vuoto. Sa di distante teatro alla vecchia maniera. L’orizzonte emozionale è intimo, ma intimismo non vuol dire utilizzare voce così bassa da non essere sentita nonostante i microfoni (in teatro chiuso), come succede alla Gravina. In altri momenti tutto poi viceversa è troppo buttato fuori senza che oltre alla vocalità delle parole si possa sentire il fruscio dell’anima. Non si capisce neppure a cosa serva l’utilizzo di immagini proiettate, soprattutto quelle che riguardano il nazismo, che di fatto non arricchiscono la narrazione. Parlare di rapporto incestuoso non crea vibrazioni o più o meno empatiche reazioni. Tutto è rallentato, noioso. Eppure di complesso edipico si parla, una dimensione che per certa psicanalisi accompagna la relazione padre/figlia, e qui lo si fa con grande apertura, la stessa coraggiosa apertura della Nin che ne scrive. Non domina l'emozione ma una certa sensazione di pesantezza: aver visto un teatro che non svolge il suo compito di ricreare magie. Un’occasione, nonostante tutte le belle premesse, è stata persa.