Teatro

"Ed io, sventurata, che rifiuto le nozze…": eccola, Cassandra

"Ed io, sventurata, che rifiuto le nozze…": eccola, Cassandra

Uno studio profondo, sentito, caparbio sulla figura di Cassandra: inevitabile tappa di un più lungo cammino verso la riscoperta del mito.

Cominciamo col dire che il potere mantico di Cassandra dispiega il suo raggio di azione su di un piano temporale che non è riducibile a chronos, lo scorrere progressivo, sequenziale, unidirezionale del tempo, bensì al più complesso “piano di immanenza” rappresentato da aion, il tempo incorporeo che scorre in tutte le direzioni; il tempo che non conosce presente ma che muove nel passato e nel futuro al contempo, eterno oggetto del duplice quesito: cosa è accaduto? Cosa accadrà?

Eschilo, più di chiunque altro, è riuscito a rendere in maniera vivida e inquietante la potenza visiva delle allucinazioni che il dio Apollo induce nella mente della povera fanciulla. La sua Cassandra si presenta in scena muta, con lo sguardo perduto nel vuoto; alle esortazioni del corifeo e di Clitennestra affinchè scenda dal carro che l’ha condotta dal porto alla reggia ed entri nel palazzo di Argo, ella si mostra completamente indifferente, oppone loro tutta la sordità e l’insensibilità dell’oggetto del fato. Nell’esatto istante in cui mette piede su suolo atride, Cassandra viene letteralmente investita da un turbunio di sensazioni visive, uditive, olfattive: vede ciò che è accaduto - l’osceno pasto di Tieste - e ciò che accadrà - la morte di Agamennone e la propria -. Ad Euripide non interessa tanto il potere/schiavitù di Cassandra in quanto tale, la sua eroina è perfettamente in grado di porsi al di fuori del delirio provocato dall’indiamento per argomentare sofisticamente su quanto la vittoria della guerra iliaca sia più da attribuire ai troiani che ai greci. In Licofrone è il motivo dello stupro da parte di Aiace a guidare una sorta di campo semantico/simbolico tutto orientato a mettere in evidenza la violenza predatrice del dio e dell’uomo come causa primaria della maladresse di Cassandra.

Questo l’humus mitopoietico classico, che l’autrice tratta con sensibile acribia filologica, innestando su di esso scampoli di ricodificazione contemporanea del mito - il lungo flusso coscienziale della profetessa di Christa Wolf - e le riflessioni artaudiane di Moscato sull’inscindibile legame tra corpo e parola. Cassandra. Festa di nozze di Laura Angiulli, è uno spettacolo essenziale, scarno, assoluto come una tragédie raciniana. Il palcoscenico è asetticamente vuoto e bianco, di un pallore nosocomiale; in scena ci sono due attrici, differenti incarnazioni del medesimo mito, ed un personaggio/coro. Quest’ultimo costituisce senz’altro l’aspetto più suggestivo dello spettacolo della regista napoletana: i versi tragici greci, letteralmente cantati da un’ispirata Maria Pia De Vito e inopinatamente mescolati ad altrettanto evocative e liriche strofe in dialetto napoletano, restituiscono spessore drammaturgico al non ben bilanciato andamento binario del lavoro. Le due attrici protagoniste, infatti, in maniera non sempre convincente, incarnano le due anime di Cassandra, epitomizzate nella pacata e lucida resa dei testi classici da un lato e, dall’altro, nel delirio verbocentrico, a tratti troppo querulo e monocorde, di ispirazione contemporanea. Ma il merito principale del lavoro dell’Angiulli è quello di essere cartina al tornasole di uno studio profondo, sentito, caparbio sulla figura di Cassandra: inevitabile tappa di un più lungo cammino verso la riscoperta del mito.