Un fiume in piena con una gran voglia di straripare è Luca De Fusco versione 2012. È dalla fine della scorsa edizione del Napoli Teatro Festival, di cui quest’anno è per la seconda volta direttore artistico, che non rilascia interviste; un silenzio stampa che si è imposto, dice, per non rispondere alle provocazioni di cui ritiene essere oggetto da parte di chi gli contesta il suo doppio incarico (ricordiamo che è anche Direttore dello Stabile di Napoli che comprende ben tre sale) e le responsabilità di insolvenze sperperi ed inadempienze della Fondazione Campania dei Festival. Interrompe questo silenzio stampa, a cui fa eccezione la conferenza stampa tenutasi a Roma per la presentazione del Napoli Teatro Festival 2012, proprio rilasciando questa intervista in esclusiva al nostro giornale, per il terzo anno media partner del Festival che avrà inizio il prossimo 6 Giugno. È passato quasi un anno dal nostro primo incontro e dalla lunga intervista che ci concesse alla vigilia dell’apertura dell’edizione 2011, e, nonostante le polemiche, l’entusiasmo nel proprio lavoro e nella progettazione relativa alla direzione del festival ed alla programmazione dello stabile napoletano non è mutata. Si aggiunge, però, anche un enorme desiderio di dire la sua, dopo che, in silenzio, ha assorbito sia le polemiche che i successi con eguale fair play. Ci accoglie come lo scorso anno nel suo ufficio, la porta è socchiusa, ma solo perché, ci dicono, è in riunione col suo staff. Quando poi ricordiamo che lo scorso anno si parlò di un “direttore a porte aperte”, sorride e con eleganza nota che forse a volte ci sono troppi spifferi e che una leggera chiusura non fa male. L’intervista dura tantissimo, oltre un’ora, e tutti gli argomenti trattati sono di grande interesse. La pubblichiamo pertanto in due parti, evitando di accorciarla: in questa prima parte si parlerà delle anticipazioni relative alla programmazione artistica del Festival 2012, e dello Stabile, nella seconda, che pubblicheremo fra qualche giorno, sarà concentrata sulle risposte alle polemiche.
Cominciamo con Napoli. Come Luca De Fusco ha lavorato in quest’ultimo anno nella città in cui è nato e da cui è stato lontano per tanto tempo?
Inutile nascondere che ho trovato una situazione terribile. La città è notevolmente peggiorata. Però, io che venivo da una città che muore molto languidamente con compostezza ed eleganza (Venezia, ndr), ma senza alcuna speranza di salvezza, trovo che Napoli sia, seppure ammalata, ferita, una città vitalissima, in cui se fai qualcosa aggreghi persone, tutto qui è vivace e vitale, e quindi sì, assolutamente ne è valsa la pena ritornare. Poi trovo che l’intuizione di chi ha creato il Festival, e di chi l’ha promosso, parlo dell’allora Presidente della Regione Campania Antonio Bassolino, dell’ex presidente della Fondazione Campania dei Festival Rachele Furfaro e del mio predecessore, Renato Quaglia, sia felicissima, a loro devo una squadra di collaboratori che credono nel festival come si crede in un partito politico, più che un lavoro per loro è un ideale di vita, una cosa straordinaria, un segnale in controtendenza. Insieme portiamo l’orgoglio di essere noi il punto di riferimento da sconfiggere, anziché rappresentare lo stereotipo del napoletano che arranca non riuscendo ad ottenere la normalità. E questo da napoletano lo faccio con fierezza, e non ho mai lavorato con tanto entusiasmo nella mia vita. Certamente è singolare che siano sei mesi che io mi occupi di far riattivare la caldaia al teatro Mercadante, per far sì che il prossimo inverno il teatro non sia di nuovo gelido, mentre al Goldoni, invece, non mi sono occupato di problemi simili mai, nemmeno per un solo secondo dei dieci anni di direzione. È innegabile che qui da noi è tutto più difficile, perché, come dico sempre, dalle 9,00 alle 13,00 ci occupiamo di tentare di essere come gli altri, dalle 13,05 alle 20,00, invece, cerchiamo di gareggiare alla pari con gli altri.
Si è più volte detto che questa è la prima vera edizione del Festival diretta da lei, dopo che lo scorso anno abbiamo visto una direzione che vedeva ereditare molti spettacoli dal suo predecessore. Cosa ha realizzato per quest’anno che avrebbe voluto fare lo scorso anno?
Innanzitutto a me piace segnalare le discontinuità ma anche e soprattutto le continuità, perché io credo nell’istituzione Napoli Teatro Festival: amavo questa manifestazione da prima di dirigerla. Di certo rimane una grande vetrina basata su coproduzioni internazionali: si apre con Robert Wilson e si chiude con Peter Brook, ed ha il fulcro con la prima mondiale di “Wonderland” di Lenton. Anzi nelle mie intenzioni nel 2013 questa caratteristica si accentuerà, nel senso che avremo ancora più prime mondiali , e parlo di registi stranieri che verranno a lavorare qui per il festival. Quindi ritengo quest’internazionalità come un segnale di continuità, così come la mole della manifestazione: credo che questo sia il più grande festival teatrale del paese, ed in questo era ambizioso Quaglia ed è ambizioso De Fusco. Di nuovo c’è che, in coincidenza con la Coppa America, ma indipendentemente da essa essendoci venuta questa idea prima, abbiamo deciso di fare un’edizione marina, quindi i due slogan di quest’anno sono “La Leggerezza” e “Il Mare”. A cominciare dal Wilson con cui inauguriamo abbiamo deciso di proporre spettacoli lievi ma non disimpegnati, così come gli spettacoli proposti nel focus dedicato all’Argentina, leggerezza non vuol dire superficialità, noi intendiamo proporre una leggerezza come la usavano Italo Calvino o Mozart. Il Mare perché ovviamente Napoli è una città di mare e perché penso che il must del festival di quest’anno sia la riscoperta del sito di Pausilypon, e che noi useremo in maniera molto intensiva.
Possiamo anticipare ai nostri lettori qualcosa circa la fruibilità degli spettacoli in questo straordinario sito archeologico?
Sfido Avignone o Edimburgo ad avere un posto così, che, pur essendo molto frequentato ed adatto ai giovani, mi ha fatto conoscere mia madre ottantatreenne. Al sito di Pausilypon si accede tramite un tunnel scavato dagli antichi romani, e che collegava il Golfo di Pozzuoli al Golfo di Napoli, noto come la Grotta di Seiano, ed è lì che avremo la prima sede di spettacolo, con il “Museo delle Utopie”, firmato da Pietro Favari e Giuseppe Sollazzo, così il pubblico già nell’arrivare vede teatro, una sorta di “prima proiezione” in quella che io chiamo la nostra “multisala”. La seconda “proiezione” avviene nell’Odeion, uno spazio meraviglioso, sopra Trentaremi, dove al tramonto si può assistere, per esempio, a Licia Maglietta che legge degli estratti da “L’Isola di Arturo” di Elsa Morante, specchiandosi in Procida, che è proprio lì di fronte. Poi si accede agli spazi riservati alla ristorazione, dove si possono degustare Sushi o Kosher (quest’ultima in occasione degli spettacoli inseriti nel focus dedicato ad Israele), quindi alle 21,30 , nel teatro romano, si può assistere all’ “Ifigenia in Aulide”, o “Che fine ha fatto Baby Jane”con Cristina Donadio e Milvia Marigliano, o il “Vantone” di Plauto tradotto da Pasolini e portato al Festival da Arturo Cirillo. Sin d’ora prevedo che lo spettacolo tra i più gettonati al festival possa essere “The bird of Phoenix” della compagnia israeliana Vertigo, che è uno spettacolo di danza realizzato sotto un igloo di bambù, che alloggia anche i riflettori, e che mantiene un rapporto molto intenso con il paesaggio, insomma uno spettacolo ecologistico, che andrà in scena al tramonto, in modo da essere ancora più suggestivo, grazie alla formidabile integrazione fra paesaggio e tramonto marino. Invito gli spettatori che decidono di venire lì di essere di rimanerci per tutta la giornata, anzi incentiveremo con dei pacchetti straordinari la presenza di chi vuole vedere più spettacoli nella stessa giornata, penalizzando chi decide di vederne uno solo. Dopo l’ultimo spettacolo, alcune sere sul belvedere apriremo una decina di tavoli per mangiare tutti dopo lo spettacolo.
Abbiamo accennato ai due “focus” vogliamo parlarne nel dettaglio?
Si. Si tratta di due primi piani su due importanti realtà teatrali: la nuova drammaturgia argentina e la danza israeliana. Entrambi sono sorprendenti, la prima è stata protagonista dell’ultima edizione del Festival d’Autumne di Parigi, festival importantissimo che con la leggerezza di solito non ha nulla a che vedere, quindi è legittimo immaginare che chissà quali pensose riflessioni sulla drammaticità della vita esprima questa drammaturgia, invece questa è espressione di un teatro fresco, fatto da giovani con una grandissima capacità attoriale. Il primo spettacolo di Claudio Tolcachir, uno dei drammaturghi che ospiteremo in questa sezione del festival, è nato addirittura in un appartamento, poiché la crisi in cui versava l’Argentina era tale che lo spettacolo fu rappresentato in casa dell’autore. Tolcachir ed il suo gruppo hanno questa caratteristica di parlare di argomenti familiari, con trame che spesso sono un po’ bislacche e surreali, e che ricordano un po’ la nostra ambientazione. Noi permetteremo al pubblico del festival di apprendere tutto ciò che c’è da apprendere sul nuovo teatro argentino. Addirittura, riguardo proprio Tolcachir, data la faciltà di allestimento dei suoi spettacoli, abbiamo ottenuto che in un solo giorno sia possibile vedere tutti e tre i suoi spettacoli, alternando la sala grande il ridotto e di nuovo sala grande del Teatro Mercadante. Della danza israeliana mi sono innamorato innanzitutto perché mi sono innamorato di Israele, e non c’entra assolutamente nessun tipo di ideologia, non sono a favore di Israele e contro i Palestinesi, poiché credo che non si possa essere che con Israele e con i Palestinesi. Il mio amore per Israele è nato andando ad un loro festival dove ho scoperto un paese giovane, pieno di energia e di creatività. La danza italiana sta drammaticamente morendo, una disciplina che si sta estinguendo in questo paese, senza che nessuno lo dica, mentre lì vi sono teatri multisala con ben 6 o 7 sale dedicate alla danza, in pieno deserto nel Kibbutz, dove vengono giovani da tutte le parti del mondo a lavorare coi coreografi israeliani. Tel Aviv è una città aperta fino alle tre di notte, allegra e vitale. Ho detto in una conferenza stampa lì in Israele, di venire a Napoli, e come io ho scoperto che Tel Aviv non è una città coi mitra ed i sacchetti di sabbia ma una città di giovani, così loro potranno scoprire che a Napoli non ci sono i gangster che si sparano dai due bordi dei marciapiedi come nella Chicago anni ’30. La danza israeliana è tutt’altro che la danza sulle punte, anzi lo spettacolo di Dafi Altabeb che sarà presentato in prima mondiale al Festival ha uno coreografia che si articola tutta per terra, con una danzatrice che addirittura striscia e nemmeno si alza da terra, una danza fortemente erotica, ma scevra da ambiguità e prouderie che sono tipiche di una cultura legata al peccato come la nostra. Purtroppo ho visto che c’è un’offerta sempre meno ricca di danza, a Napoli ed in Italia, perciò noi intendiamo così offrire agli appassionati di danza il meglio del meglio: se organizzassimo un convegno sulla cucina basca, che è una delle cucine migliori del mondo, gli appassionati di cucina accorrerebbero tutti, così io invito gli appassionati della danza ad accorrere ad assistere a questi spettacoli, perché vedranno delle cose che rappresentano il risultato di una selezione che in un anno abbiamo realizzato per ottenere il massimo della qualità.
Molto nutrita la compagine campana. Oltre ai già citati Maglietta, Donadio, Cirillo e Sollazzo, abbiamo infatti Enzo Moscato con un suo nuovo spettacolo,il ritorno alla drammaturgia di Valeria Parrella, autrice dell’Antigone che lei stesso dirigerà con Gaia Aprea protagonista, Davide Iodice con un lavoro sulla genitorialità, Antonella Monetti ed il suo Viviani marino, Roberto Azzurro ed una seconda puntata, per il festival, del “Teatro in cucina” di Rosi Padovani, Francesco Saponaro con la regia della versione spagnola di “”Io l’erede” di Eduardo, quindi Antonella Cilento, Giorgia Palomba e Giovanna Di Rauso,rispettivamente autrice, regista ed interprete di un omaggio ad Emily Dickinson, Carmine Borrino, autore di un esperimento teatrale per le strade del centro storico, Vincenzo Borrelli ed il suo lavoro sulla follia, il ritorno di Antonio Latella con uno studio sulla sceneggiata, nonché quello del progetto Arrevuoto.
Naturalmente non può mancare il teatro prodotto qui a Napoli. Come già dicevo lo scorso anno organizzare un festival teatrale a Napoli non è come organizzare un festival ad Avignone ed ad Edimburgo: qual è il contributo di Avignone alla storia del teatro francese o di Edimburgo a quello britannico? È evidente che organizzare un festival teatrale nel luogo più importante per la produzione teatrale contemporanea è tutt’altra cosa. Come dico sempre, ci sono più primi attori su cui formare compagnia in Campania che in tutte le altre regioni d’Italia messe insieme. Non intendiamo con questo assecondare l’idea un po’ sciocca di chi dice “Perché sprecate tutti questi soldi per Brook e Wilson quando ci sono tanti teatranti napoletani che non hanno lavoro”, una logica del festival, questa, da sub assessorato alla cultura, estranea a qualunque grande festival. Noi siamo al servizio degli spettatori, non dei teatranti, occupati o disoccupati che siano, non perché dobbiamo dare ossigeno a postulanti, ma è giusto approfittare del fatto che organizziamo un festival di teatro come se fosse un festival di musica sacra dentro alla basilica di S.Pietro,
A proposito di musica, appare subito, sin dal primo appuntamento con il concerto di Noa, che sia un elemento molto importante per quest’edizione del festival.
Il concerto di Noa è, in effetti, una sorta di anteprima del festival, e rappresenta un ulteriore omaggio alla cultura israeliana: la coincidenza che un’artista israeliana avesse inciso un cd di musica napoletana ci sembrava un’occasione troppo ghiotta per non inserirla nel festival. Per quel che riguarda gli altri appuntamenti che hanno nella musica una componente importante, dallo spettacolo di Wilson a quello dello stesso Brook, è un’evidente espressione di quanto il teatro contemporaneo sia un teatro spurio: lo spettacolo dal vivo tende sempre di più a mescolare le carte, musica danza e prosa spesso vengono integrate in spettacoli in cui è difficile distinguere se opere di un regista, un musicista o un coreografo, ad esempio: “Einstein on the beach” è di Bob Wilson, Philip Glass o Lucinda Childs? Gli steccati stanno cadendo.
C’è qualcosa che vorrebbe introdurre nella programmazione del festival e che ancora non ha fatto?
È quello che spero di riuscire a fare l’anno prossimo: cioè avere Bob Wilson qui a provare Viviani con attori napoletani, così come è successo con “La casa di Bernarda Alba” diretta da Pasqual, grande mio punto d’orgoglio per quel che riguarda la scorsa edizione. La mia idea è quella di far diventare Napoli un “cantiere” di produzione, non una semplice vetrina, come Avignone o Edimburgo, un luogo dove per convenzione ci diamo tutti appuntamento come per un convegno, ma un luogo dove il teatro si produce.
Lo scorso anno la coda autunnale del festival fu un’esigenza dettata dai tempi di organizzazione troppo stretti. Quest’anno, però, nonostante i larghi tempi per preparare il cartellone, ritorna una seconda programmazione settembrinai. Perché?
C’è un motivo. Io ho, immodestamente, portato al festival un valore aggiunto di un premio che va in televisione e fa un milione di ascoltatori, più di quanti hanno visto le selezioni dell’America’s Cup, che hanno raggiunto a malapena i 500.000 contatti. La cerimonia di quel premio, e parlo delle Maschere per il Teatro, non è possibile realizzarla a giugno, perché, finendo la stagione teatrale a maggio, per il suo meccanismo di voto ed i tempi necessari, si finisce inevitabilmente a settembre. A quel punto mi è sembrato che lì sì sarebbe stato giusto dare una spinta ai teatri napoletani. Così inauguriamo i maggiori teatri napoletani con i loro spettacoli d’apertura, dando l’occasione ai giornalisti di poter recensire sette spettacoli a livello nazionale. Una sorta di passaggio di testimone dal festival alla stagione 2012/13.
Quest’anno sono previste anche delle importanti collaborazioni fuori dal territorio cittadino. Ce ne può parlare?
Siamo molto contenti di diffondere il festival anche fuori dal comune di Napoli, grazie alla collaborazione con i direttori dei principali festival campani, con il direttore del Positano Teatro Festival Gerardo D’Andrea, che ha scelto alcune nostre precedenti produzioni per la prossima edizione della kermesse, così come con Giulio Baffi, direttore di Benevento Città Spettacolo, che sceglierà uno spettacolo del Fringe per la sua manifestazione, e lo stesso accadrà anche con Ravello. Abbiamo alcuni progetti che riguardano Capri, ma che è prematuro annunciare. Già però ho sentito delle dichiarazioni alquanto bislacche a riguardo: io trovo che sia demagogico dire che non serva un festival culturale a Capri, perché lì ci sono i ricchi. A questo punto non si dovrebbero fare nemmeno il Festival di Cannes o quello di Taormina. Capri è uno dei poli turistici più importanti d’Europa e non ha una stagione d’intrattenimento culturale, e questo non mi sembra normale. L’isola in cui sono passati da Graham Greene a Rilke, da Gorkj a Lenin, è sempre stata un luogo fervente di cultura, ed ora è diventata solo l’isola delle boutique in via Camerelle, o dei locali notturni. Trovo che il tentativo di restituire un’identità culturale a Capri sia un servizio sociale importantissimo.
Una grossa novità, pare di capire, riguarderà anche la sezione Fringe del festival. Di cosa si tratta?
Molti ragazzi in questi anni sono venuti a loro spese a Napoli per farsi vedere da un pubblico che in realtà non li ha visti, perché noi non siamo ancora Avignone ed Edimburgo, abbiamo un pubblico di appassionati di teatro ma non di appartenenti a tutto il mondo teatrale, almeno non ancora, che possa essere viatico per un successo per questi giovani artisti. È un obiettivo impossibile da ottenere in soli cinque anni. Allora io ho proposto di invitare il più alto numero di compagnie possibile, concedendo loro 10 minuti per raccontare a pubblico ed addetti ai lavori un progetto, attraverso un corto o solo una presentazione, il tutto concentrato in tre giornate. Una giuria poi determinerà quali tra le proposte saranno sviluppate e prodotte per l’edizione dell’anno prossimo.
Anticipazioni sulla prossima stagione dello stabile?
Io credo che il Mercadante debba frenare, perché, pur facendo un’attività normale rispetto ad un teatro stabile, ha la difficoltà di non riuscire a riscuotere il grandissimo credito col Comune di Napoli, che ne causa il rischio di fermo. D’altra parte c’è tantissima domanda. Facendo perciò qualche scontento in più, credo che sul ridotto sia il caso di assottigliare un po’ le presenze e le teniture, a parte quelle di spettacoli di maggior richiamo. La formula del San Ferdinando per il teatro dialettale, da Scarpetta a Ruccello, mi sembra che abbia convinto tutti, anche il nostro Sindaco che l’ha detto appena insediato, e Luca De Filippo vorrebbe addirittura di istituzionalizzarla, pertanto la stagione dello stabile sarà affidata proprio al San Ferdinando, dove anche gli abbonati del Mercadante saranno portati con dei pulmini ad assistere allo spettacolo di De Filippo. La sala grande del Mercadante sarà invece improntata sulle ospitalità varie, con il ritorno di Peter Brook in quanto, essendo il festival coproduttore di “Le suite”, farà usufruire allo stabile del numero di repliche spettanti all’impegno di produzione. Il Mercadante pagherà questo grande spettacolo meno del prezzo di uno spettacolo italiano medio, e questo è uno dei vantaggi derivanti dalla sinergia fra i due enti.
E sulla sinergia fra Fondazione Campania dei Festival si conclude la prima parte della nostra intervista, che riprenderà proprio da questo argomento nella sua seconda parte, in cui Luca De Fusco risponderà con grande impeto alle tante critiche che gli sono state mosse in questo suo primo anno di lavoro a Napoli. Si parlerà del discusso suo doppio incarico, delle spese relative al suo spettacolo, “L’Opera da tre soldi”, dei debiti che la Fondazione ha nei confronti degli artisti partecipanti precedenti edizioni del Festival, e dei dissidenti che si incontrano al PAN.
(1 - continua)