L'estasi è il tema scelto da Azzura De Gregorio per la sua terza regia. Immagini affascinanti e atmosfere oniriche permeano e nutrono il lavoro che ha debuttato l'11 giugno nel cartellone dell'E-45 Fringe Festival.
Lo spettacolo, scritto e diretto da Azzura De Gregorio, passa in rassegna le diverse possibilità in cui l’estasi è in rapporto al contesto socio-antropologico-culturale. Dal rito di matrice arcaico-ancestrale a quello tribale, dall’adorazione cristiana fino ai rave-party contemporanei, dove l’alterazione psichica, l’etimologico uscire fuori di sé, non è più dato da uno slancio d’elevazione mistica, ma dall’assunzione – contemplando un paradigma troppo semplicistico e facilone – di droghe sintetiche: l’estasi, appunto. Queste, le intenzioni. Questo, il disegno drammaturgico alla base di Ex-stasis.
Debitrice dell’esperienza ormai quarantennale – e di fatto tradizionale, di una trazione che si rifà alla classicità del moderno – del Teatro di Immagine, la scrittura scenica si impernia su quadri visivi d’ascendenza essenziale che si avvicendano “passandosi” – come in una staffetta – una sorta di motivo iconico-testimone (urna, velo, coroncina di fiori, freccia, etc.), dal segmento precedente a quello successivo. Gli attori, all’interno di questa impostazione, alternano una presenza rarefatta, costruita su ritmi lenti e pose ieratiche, a interventi in cui è prevista una fisicità più dirompente e meno misurata, senza mai proferir parola. Gli unici innesti vocali sono riprodotti in diffusione e alterati dall’effettistica. Si passa così da una situazione in cui una figura sacerdotale divide un fegato in più parti, in una coltre di nebbia artificiale, a un quadro di purificazione con l’acqua, fino ad imbatterci in una danza tribale-percussiva, una trasfigurazione di una donna a “madonna con raggiera” (uno dei tableau più riusciti), un selfie turistico con santa, un party techno-acid che porta al parossismo fisico-gestuale dei generosi performer in scena (Loredana Canditone, Giulio Maroncelli, Eva Sabelli, Giandomenico Sale, Carmine Scotto Di Santolo).
Si sa: di fronte a uno spettacolo impostato su una matrice iconico-visiva poco conta ricordare e ricostruire le situazioni proposte, bisogna invece concentrarsi sull’impatto avuto sul pubblico, un impatto che in linea di massima gioca, se non completamente, quasi tutto sull’emotività e la fascinazione che sono in grado di esprimere i diversi squarci visivi. E dunque pur apprezzando la buona volontà, l’idea di partenza, la suggestione di alcuni tableaux e – ribadiamo – la generosità nell’impiego delle risorse fisico-gestuali da parte del gruppo d’attori, Ex-stasis è spettacolo che sembra vivere quasi esclusivamente sulla dimensione rappresentativa delle questioni poste: mettere, cioè, in scena «la bellezza – leggiamo dalle note di regia – e la potenza della trasfigurazione che si verifica quando un corpo è coinvolto in un’esperienza estatica, e ne indaga le possibili, molteplici manifestazioni». La sola cornice rappresentativa però, per sua natura, non può che avere una presa relativa sul pubblico, il quale – al di là di un certo appagamento di natura estetica – proprio non può andare oltre. D’altronde questo sembrerebbe un rischio calcolato, visto che nel programma si legge: «l’osservatore esterno, una volta messo di fronte a tali estasi, potrà sì ricercarne il senso, ma non potrà mai addentrarsi nel nucleo profondo che ha condotto il ‘personaggio’ ad una tale alterazione dello stato di coscienza, poiché quella estatica rimane sempre un’esperienza fortemente soggettiva». E infatti, come previsto, lo spettatore assiste inerme a una galleria mimica di seconda mano risalente alla Renée Falconetti di dreyeriana memoria. Sarebbe stato allora più convincente, risolto e autentico questo Ex-stasis se, in luogo degli attori, in scena ci fossero stati Battenti e Fujenti in processione?Ovviamente no, perché sarebbe venuta meno la dimensione estetica del disegno predisposto dalla De Gregorio.
Qual è allora il punto? La questione capitale è connessa alla estrema contraddizione palesata nel rapporto irrisolto tra stile e matrice tecnico-espressiva. Ex-stasis, da un punto di vista strettamente drammaturgico, sembra seguire i crismi compositivi dell’esperienza teatrale moderna (il Teatro di Immagine nella fattispecie), lavorando nel solco di una possibile tradizione del nuovo, ma finisce purtroppo per tradirne la lezione sclerotizzando la possibilità di vivere e far vivere in scena l’esperienza da cui muove, scongiurando così la benché minima possibilità di accogliere quello stato di perdita e rapimento a cui s’ispira il titolo. Nel 1965 il Living Theatre piazza all’inizio del suo Frankenstein una lunghissima sequenza in cui un gruppo di performer sistemato in cerchio cerca, attraverso la meditazione, di far levitare una giovane donna. Tentativo che fallisce, perché nel disegno drammaturgico il motivo narrativo risiedeva proprio in questo fallimento, ma dove però la meditazione – assunta nella pratica recitativo-performativa come risorsa tecnica – era un elemento vissuto in maniera assolutamente autentica e diretta. In parole povere: gli attori del Living credevano realmente di poter far levitare il corpo della loro compagna. E assieme a loro anche il pubblico era convinto di questa possibilità perché la meditazione era esperita per davvero, la tensione che scaturiva da quel momento era reale. Abbracciare il moderno, oltreché riproporne l’appeal più evidente e visivamente accattivante, appropriarsi del suo codice linguistico, significa anche porsi la questione di andare al di là dello spettatore in qualità di «osservatore esterno», provare a ridefinirne il ruolo e il senso di quel ruolo all’interno della composizione scenica. Sono questioni che i gruppi definiti “emergenti” hanno il dovere morale di porre al centro del proprio lavoro. Ne va della maturità culturale del teatro tutto.