La scrittura di Rodrigo Garcìa, spogliata dell'impianto spettacolare che contraddistingue da sempre la sua Carnicerìa Teatro, è al centro dell'operazione proposta da Ferrini e Rossetti, evidenziando una particolare attenzione al senso profondo e alla dimensione grottesca della parola testuale.
Lo spettacolo proposto da Progetto U.R.T. Unità di Ricerca Teatrale è tratto da uno dei testi più rappresentativi di Rodrigo Garcìa, edito in Italia da Ubulibri nella raccolta Sei pezzi di teatro in tanti round, nella quale troviamo anche Note di cucina, Il bello degli animali è che ti vogliono bene senza chiedere niente e La storia di Ronaldo il pagliaccio del McDonald's. Se il testo va considerato come un round, il teatro è allora un ring. E, infatti, questa dimensione d’aggressione fisica è ben incarnata, oltreché dai testi, dalle regie dello stesso Garcìa che non lesina nell’inondare la scena con liquidi organici, rimasugli, sistemando il pubblico in un’arena dal fetore stomachevole, bombardandolo con proiezioni d’ogni tipo. La lettura data dal regista Jurij Ferrini – che si è concentrato in particolar modo su due dei cinque segmenti di Dovevate rimanere a casa, coglioni vale a dire Credo che mi abbiate frainteso e Coglione tu, coglione io – procede, invece, nella direzione opposta, proponendo un impianto spettacolare completamente spoglio, privo del benché minimo elemento scenografico, evidenziando la netta volontà di “portare alla scena” la drammaturgia garciana, più che metterla in scena. Un’impostazione in linea con quanto dichiarato: «ritengo – dichiara Ferrini – che i suoi testi possano funzionare benissimo ormai anche come teatro classico, comico e di matrice pop. Il teatro di Garcìa arriva a chiunque lo voglia davvero ASCOLTARE [il maiuscolo è mio]».
Sul palco la sola Rebecca Rossetti, anche danzatrice, a farsi carico dei paradossi su tempo libero e lavoro, rievocando flashback in cui la piccola Elvira cerca di salvare un pony dalla routine domenicale, sottolineando l’enorme differenza esistente tra “ammazzare la noia” – cosa impossibile – e “distrarla”, tra sognare e pensare, affrontando la disillusione nell’ordinare una pizza-doppio formaggio che in realtà risulta condita da un sottilissimo strato di formaggio. Il personaggio è il megafono di una parola comiziale alla ricerca di un interlocutore possibile, all’interno di un gioco meta-teatrale, figlio – tanto quanto lui – delle disfunzioni della società contemporanea. Tutto il cinismo, la carica provocatoria, il ritmo incessante e nevrotico, il registro pop-pulp della scrittura di Garcìa son ben incarnati dalla Rossetti, che – con braccia verso l’alto e passo leggero e misurato – sembra sempre sul punto di esplodere, esprimendo «uno stato mentale che merita attenzione», cambiando registro nel finale dove giustamente e coerentemente implode di fronte alla conclamata impossibilità, non solo sua, di venire a capo delle anomalie che fondano il nostro stare al mondo in questo mondo. Un discorso, questo, che forse aveva bisogno di essere sostenuto dall’organizzazione composita degli altri elementi linguistici della scena, e che il solo corpo attorico è riuscito a reggere sul lungo termine con difficoltà, nonostante gli sforzi e le buone intenzioni.