Teatro

Gabriele Russo, il racconto di una generazione attraverso la figura di Telemaco

Gabriele Russo, il racconto di una generazione attraverso la figura di Telemaco

Gabriele Russo il teatro lo ha respirato dalla nascita, anzi, anche prima, nel grembo della mamma, l’attrice Dalia Frediani, continuando poi da ragazzino sulle tavole del palcoscenico del Teatro Bellini di Napoli, con suo padre, l’attore e regista Tato Russo. Ora il suo incarico di direttore artistico nel teatro che suo padre nella seconda metà degli anni ’80 ha riportato alla luce dopo decenni di abbandono, lo vede particolarmente attento alle nuove tendenze teatrali, operando, insieme ai fratelli Roberta e Daniele, una sorta di piccola rivoluzione in un panorama artistico sempre più avulso dal mettersi in discussione. In questi giorni Russo debutta al Napoli Teatro Festival con la regia di “Odissè – in assenza del padre”, chiaramente ispirato all’Odissea di Omero.

Che tipo di ispirazione ti ha dato il capolavoro di Omero per questo tuo ultimo lavoro?
Il punto di partenza, naturalmente, è stato proprio quello, lo stavo rileggendo, dopo la lettura al liceo ed una prima rilettura qualche anno dopo, ed è nata in me una serie di suggestioni che ho pensato potessero essere espresse in uno spettacolo. Soprattutto mi sono interessato del punto di vista di Telemaco, più che all’avventuroso viaggio di Ulisse. Nelle Telemachie, quando va via Ulisse, e  ne è raccontata l’assenza, la mancanza della figura del padre, di qualcuno che regga l’equilibrio, determina il caos, Telemaco si trova da solo con la madre in una casa  invasa dai Proci che gozzovigliano e godono delle sue ricchezze come se fossero le loro. Mi ha colpito molto la figura di questo ragazzo che doveva superare se stesso, essere all’altezza di una situazione mentre ancora in realtà non lo era. Tamtìè che parte alla ricerca di questo padre, e non riesce a risolvere il suo disagio finché Ulisse non torna a casa. Ho visto questa stria molto vicina a quanto accade alla nostra generazione, che ha sentito l’assenza di “padri”, di maestri, vivendo in una sorta di smarrimento , ed in questo smarrimento ho voluto raccontare come questo ragazzo riuscisse ad organizzarsi, quali problemi dovesse affrontare, quindi al di là del viaggio di Ulisse, di tutto l’immaginifico che esso comporta, è questa la storia che tratta il mio spettacolo, di cui, a questo punto è chiaro, il vero protagonista è Telemaco, che arriva a fondersi in Ulisse, rivedendosi in lui durante l’attraversamento dei suoi viaggi..

Tu non sei in scena, come attore, in questo spettacolo, ma quanto è in scena di te come uomo?
Io credo che inevitabilmente ci sia finito qualcosa e forse se ne accorgono ancora di più le persone che, conoscendomi, lo vedono. Ma io sono anche pronto a negarlo, perché,  vero, in alcuni momenti potrei anche aver citato cose personali, ma poi lo spettacolo chiede da solo di andare in una sua direzione. Più che me nello spettacolo ho voluto raccontare una generazione, la mia, perché questa sorta di disagio lo vedo universale, lo riscontro in molti miei coetanei.

“Odissè” è uno spettacolo in cui sono impegnati ben diciotto attori,  sicuramente una scelta in controtendenza rispetto a quanto si vede in giro, visto che i cartelloni sono sempre più pieni di spettacoli con pochi interpreti se non monologhi. Impegnare così tanti attori ti ha più stimolato o più spaventato?
Io mi sono formato attraverso il teatro di mio padre, fatto di cast numerosi, quindi in qualche modo è un imprinting che mi è rimasto, anche se nella mia precedente regia ( “Gretel e Gretchen” di Claudio Buono ndr)  avevo solo tre attori. Quando ho messo mano al lavoro sul poema omerico avevo, insieme ad altri due autori, tantissimi personaggi, poi con lo scenografo ho pensato ad uno spazio rappresentativo molto importante e suggestivo, un segno talmente forte in cui tutte le parole che venivano recitate sentivo che non erano altrettanto forti, ma non per il poco valore del testo, anzi, solo che la suggestione dello spazio scenico mi ha fatto mettere in discussione con me stesso, ed ho capito che non dovevo affezionarmi alle cose. Quindi quel cast che era nato per seguire l’idea che ognuno avesse un suo ruolo specifico, ha cambiato la sua funzione, strada facendo, lavorando sulla base dei contenuti del testo iniziale, ma cercando di esprimersi in una sorta di sintesi. Compattando le due ore e mezza di durata di quel testo in un’ora e venti in cui il movimento sostituisce la narrazione verbale. . Io ho chiesto loro una cosa non facile, lavorare sulla presenza in scena, anche con poche o addirittura nessuna parola, e quelli che erano i singoli personaggi sono diventati, in seguito, due gruppi: i popolani ed i proci, che si contrappongono in scena attraverso immagini ed azioni.

”Odissè” si annuncia come uno spettacolo perfettamente in linea con la nuova strada che, da quando sei direttore artistico del Bellini, sta avendo la programmazione del teatro: spettacoli in sintonia con i gusti di un pubblico più giovane, quanto costa in termini di impegno, e quindi anche di risultati, intraprendere una strada diversa da quella cosiddetta generalista?
È una sorta di semina, è indubbiamente una strada rischiosa, soprattutto in una città come Napoli, che pur essendo una fertile di idee e di grande vitalità, relega un certo tipo di teatro ad una cerchia di pubblico molto limitata, io sono contento di dare questa sorta di svolta al Bellini, ma nemmeno voglio che questi spettacoli siano fruiti solo da addetti ai lavori, perciò, più che limitarsi alla scelta degli spettacoli, credo si tratti soprattutto di educare il pubblico al nuovo. Il problema che investe il teatro non è solo quello economico, nel resto d’Europa l’economia non è che sia poi così fertile. In realtà la differenza la fa, ancora una volta, la televisione, che qui da noi ha attecchito in maniera particolare, dagli anni ottanta in poi, spostando il gusto del pubblico in maniera determinate. Dobbiamo chiederci perché, come mi ha detto un mio preziosissimo collaboratore che è spesso in Francia per lavoro, il mio aiuto Marco Manchisi,  se in Francia fanno un testo di Gorkji in un teatro di mille posti, fuori c’è la fila per entrare. Come mi dice sempre Marco, lì c’è un terzo canale che trasmette cultura 24 ore su 24, promuovendo mostre, teatro e quant’altro, stimolando il pubblico ad essere più attento. 

Quali sono i tuoi maestri, al di là, naturalmente , dell’influenza che ha avuto tuo padre?
Come regista sono affascinato da Necrosius, con cui mi piacerebbe lavorare. Poi mi attraggono vari attori, ognuno per una sua specifica caratteristica: Toni Servillo per la sua presenza scenica, mio padre per il suo carisma, Albertazzi per le sue capacità affabulatorie.

Cosa vorresti si ricordasse di “Odissè”?
Vorrei che desse delle emozioni, nel corso della rappresentazione, e che dopo lasciasse l’occasione di riflessione, con delle risposte, ma anche punti interrogativi.