Giulio Casale, in scena con Andrea Scanzi, interpreta la musica e le parole di Fabrizio De Andrè nello spettacolo "Le Cattive Strade" sul palco del teatro Menotti di Milano.
Sarà in scena al Teatro Menotti di Milano dal 26 febbraio al 1 marzo “Le Cattive Strade”, spettacolo scritto e interpretato da Andrea Scanzi e Giulio Casale. Viaggio emozionale su Fabrizio De Andrè fatto di parole e musica, “Le Cattive Strade”, attraverso la narrazione di Andrea e le interpretazioni di Giulio, evita saggiamente l’ agiografia e la “beatificazione” della figura di De Andrè concentrandosi invece su quanto reale e tangibile sia stata – ed ancora è - la sua arte.
Continuando il proprio coerente percorso artistico personale, sempre in bilico fra il teatro e la musica, Giulio Casale si è preso l’onore e l’ onere di portare sul palco le canzoni di De Andrè…
“Le Cattive Strade” è in scena dal 2012, segno che l'alchimia scenica fra te ed Andrea Scanzi funziona. Come è nata la vostra collaborazione?
Con Andrea abbiamo molte passioni comuni: il vino, il tennis, il rock, e ovviamente la canzone d’autore… Ci conosciamo da una decina d’anni, era in qualche modo fatale trovarsi prima o poi a collaborare. Siamo poi entrambi piuttosto pignoli nelle nostre cose, e dotati d’ottima memoria, e poi nutriamo una antica fascinazione rispetto al teatro, alla sua liturgia, ma anche e innanzitutto rispetto al luogo fisico, alla sala, a quel mistero del buio e del silenzio, che tutto può contenere, e rivelare.
Come è strutturato lo spettacolo? Segue un filo cronologico o ha un approccio tematico?
La narrazione procede quasi sempre in senso cronologico; si passa in rassegna l’intera produzione discografica deandreiana, una storia lunga più di 40 anni, dal 1958 alla sua morte, ma non mancano le sorprese per chi ascolta..
Come ti sei avvicinato al repertorio di De Andrè e quale criterio di scelta delle canzoni avete usato per “Le Cattive Strade”?
Con il rispetto e la libertà che puoi concepire di fronte ad un “classico”. Con un approccio se vuoi da regia contemporanea, ma di un corpus che a questo punto è per quasi tutti un classico. Ho molto lavorato sugli arrangiamenti, sui “portamenti” in primis, talvolta modificandoli non poco. Così mi sono trovato con delle versioni in sapore spesso rock-blues, capaci però di restituire il senso quasi sempre dolente, quasi finale, ultimativo, di molte delle canzoni di Faber. “Inverno” è un buon esempio, e “Preghiera in gennaio” lo è ancora. In generale abbiamo date per acquisite le composizioni più celebri che vengono solo nominate nei monologhi di Scanzi, e cercato di far risuonare momenti che qualcuno definirebbe minori ma che minori non sono, o comunque non risultano tali nella nostra messa in scena.
Hai cantato sia De Andrè che Gaber: il primo “universale”, Gaber invece molto legato a quella che era l'attualità dei suoi tempi: apparentemente due personalità artistiche difficilmente accostabili. Secondo te, oltre all'onesta intellettuale e all' anarchia di pensiero, cosa li accomuna?
Sono due giganti, e due giganti che non hanno disdegnato l’essere scomodi e difficilmente catalogabili. Alla fine Faber resterà più impresso nella cultura popolare del nostro paese, ma è anche un fatto di forma … Li accomuna senz’altro un grande slancio utopico-sociale, di cui sia io che Scanzi siamo tra l’altro figli (anche biologici se vuoi), e l’aver cantato loro e nessun altro in presa diretta quel “cadavere di utopia”, questa infinita Domenica delle Salme, o la fine del pensiero in Gaber, che oggi a mio parere produce e induce in molti di noi il peggior ben pensare, il luogo comune, “la scimmia del quarto Reich”, i prodromi di uno strisciante neo-fascismo.
In “Polli di Allevamento” indossasti la "Maschera-Gaber" come maschera teatrale molto “fisica”, anche se sono convinto che in molti non l' abbiano capito e abbiano preso l' interpretazione per un tentativo di imitazione, fraintendendo l' intero spettacolo. Come ti sei trovato a portare sul palco le parole di De Andrè, spogliate di ogni rappresentazione fisica?
Ma vedi, anche questa è una prova d’attore molto dura per me. A parte il rischio d’impresa che è di per sé cantare De Andrè.. Proprio lo stare seduto, interpretando e reinventandomi la figura del menestrello, il non potere sbagliare alcunché con la chitarra (e alcune parti sono complicate) oltre che ovviamente nel canto, rinunciare in apparenza al corpo e affidarsi agli sguardi, a piccoli gesti in certe pause, ecco: ci ho dovuto lavorare molto, e naturalmente non è necessario che tutti lo capiscano, nemmeno stavolta.
Da quando sono mancati, ci sono state molte proposte teatrali e musicali su Gaber, De Andrè e, ora, Jannacci. Non c'è il rischio, per sovraesposizione o per adattamenti “addomesticati” rivolti ad un pubblico “generalista”, di sminuirne la portata culturale?
Eccome se c’è, e con Andrea all’inizio ci siamo andati in punta di piedi, ci siamo interrogati a lungo sul senso e sul contenuto della nostra cosa. Poi, per dire, quando anche Dori Ghezzi ci ha confermato che dal nostro spettacolo usciva intero sia l’uomo De Andrè, sia la portata della sua opera, un po’ ci siamo rasserenati. Soprattutto non ne facciamo un santo, né un’icona a la Che Guevara, per dire: sono i suoi dischi-capolavoro (grazie anche al contributo dei molti coautori e collaboratori che noi sempre citiamo, volta per volta) e soprattutto sono i suoi “valori” libertari e inclusivi a rimanere.
Hai cantato e recitato, a rappresentare il meglio di una stagione culturale irripetibile, Gaber, De Andrè, Tenco, Fernanda Pivano, i poeti e i musicisti della Beat Generation. Se dovessi rappresentare il meglio di questi nostri tempi più recenti, cosa porteresti sul palco?
Forse stranamente ancora americani al momento. Jonathan Franzen, David Foster Wallace..
Ti intervistai ai tempi de “La Canzone di Nanda”. Da allora ci sono stati “The Beat Goes On”, l' album “Dalla Parte del Torto” e “La Febbre” a teatro, la reunion degli Estra, i live confidenziali, i reading e ora De Andrè con Andrea Scanzi. Come è cambiato - e rimasto sé stesso - Giulio Casale attraverso tutte queste esperienze?
Tutto ciò che nomini dentro di me produce un intero, non saprei come altro definire … Ci si completa, ci si cerca e ci si perde, ogni volta un po’ di più. Da soli o in buona compagnia. Autore o interprete, scontato il paradosso, poco cambia in fondo. Il lavoro è enorme, comunque.
E quali saranno le prossime esperienze che andrai a ricercare o che ti troveranno lungo la strada?
Del doman non v’è certezza …