Teatro

Giulio Cesare, studio sulla parola altrimenti detta

Giulio Cesare, studio sulla parola altrimenti detta

Al Festival di Spoleto Romeo Castellucci mette in scena i "pezzi staccati" dal Giulio Cesare

Il teatro contemporaneo fa spesso riferimento ai capisaldi della tradizione teatrale occidentale, ora citati, ora metaforizzati, ora rielaborati, come una sorta di patrimonio alfabetico da riusare e risemantizzare; e di tutto il repertorio comunemente conosciuto e condiviso, i tragici greci e Shakespeare costituiscono la principale fonte di storie e di archetipi teatrali a cui di volta in volta affidare – talvolta con successo, più spesso con intenzione – il compito di far affiorare le voci, le inquietudini e i temi del tempo presente. Basterebbe, ad esempio, pensare alle numerose e diverse rimasticazioni che Carmelo Bene effettuò sull'Amleto, sfilando estrosamente dal testo scespiriano linee tematiche secondarie o sovrapponendovi costrutti di senso non presenti nell'opera originaria.

Nel 1997 la Societas Raffaello Sanzio realizzò a Milano un'epocale messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare, connotata da inusuali e incisive soluzioni iconografiche. Si trattò di un potente e creativo attraversamento del testo classico che si concentrava sulla retorica del potere e sul ruolo della parola, disarticolata fino alla sua elementare natura sonora. Fu realizzata una messa in scena complessa e stratificata, che abbracciava anche una riflessione metalinguistica sulla pratica teatrale tradizionale e contemporanea.

Dopo vent'anni il regista Romeo Castellucci preleva da quel progetto di regia alcune parti isolate, “pezzi staccati” che vengono a costituire un testo scenico significativamente nuovo; al Festival dei due mondi di Spoleto l'opera viene rappresentata nella chiesa di San Salvatore, spazio severo e carico di sacralità appena fuori dal centro storico. Il nuovo lavoro mette assieme il monologo di Marullo tratto dalla prima scena del testo scespiriano e il lamento funebre di Marco Antonio; a questi viene intercalato un ipotetico discorso di Giulio Cesare alla folla che non appartiene all'originaria messa in scena del 1997.

La peculiarità che costituisce il filo interpretativo di questa nuova drammaturgia è il modo con cui la parola giunge al pubblico nelle tre parti staccate: nella prima l'attore proietta sulla parete di fondo, mediante un sondino endoscopico, il movimento delle proprie corde vocali associato all'intensità variabile della parola: vibrazione metaforica del discorso e vibrazione fisica dell'apparato fonatorio vengono a sovrapporsi nella ricezione dello spettatore, con tutte le immaginabili interferenze di senso che desacralizzano il logos a pura emissione di suono. Nella seconda parte un Cesare autorevole e rassegnato si rivolge al popolo con fervore; ma la parola è muta, e ogni gesto è sottolineato da rumori incongrui e oscuri, come se la fatalità predetta dall'indovino avesse spento anzitempo la voce al protagonista della Storia per lasciare una pagina bianca al nuovo corso degli eventi.

La terza parte è quella che maggiormente preme sui confini ricettivi dello spettatore: il monologo di Marco Antonio è interpretato da un attore laringectomizzato, che trasporta dunque tutta la fatica della parola emessa nel sentimento poetico dell'orazione. Ancora una volta il significato della parola si sposta in secondo piano rispetto all'atto materiale che la genera, quasi a suggerire che il processo di costruzione del senso rimane intrinsecamente subalterno al progetto retorico che lo definisce. Così, in questa triplice sconnessione fra segno sonoro e significato si legano i tre pezzi staccati del “nuovo” Giulio Cesare di Castellucci, in rapporto di filiazione puramente formale con l'opera antecedente.

Molto pertinente l'interpretazione dei tre attori, il tribuno Sergio Scarlatella, oratore enfatico e rigoroso; il Cesare di Giancarlo Plazzi, nella sua arringa straniata e malinconica; il Marco Antonio di Dalmazio Masini, intenso e sostenuto. La scelta del luogo amplifica la ieraticità dei gesti e il rituale delle posizioni – in qualche caso dei precisi tableau vivant – mentre alcuni segni irrelati – come la poetica e misteriosa coda in anticlimax – chiedono allo spettatore di farsi interprete libero di un senso appena suggerito, lasciando aperta sul finale la bella costruzione scenica di Castellucci.

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