Paolo Di Paolo (Roma, 1983) è tra i più giovani autori di questa polifonica «attesa» commissionata dal Teatro Festival Italia a dieci scrittori italiani. Poco più che ventenne è stato finalista nel 2004 al premio Calvino e al premio Campiello Giovani con la raccolta di racconti Nuovi cieli, nuove carte. Ha raccolto le voci di importanti scrittori e poeti contemporanei in una fortunata serie di libri-intervista (Gli affetti, i valori, le passioni con Dacia Maraini, Queste voci, queste stanze con Elio Pecora, ed altri). Nel romanzo Raccontami la notte in cui sono nato (2008) si è ispirato alla vicenda vera di un uomo che mette in vendita la propria vita su e-bay. Per il teatro ha curato nel 2001 il testo Il respiro leggero dell’Abruzzo; per il Festival ha composto la breve pièce “di strada” L’innocenza dei postini.
L'attesa è un tema ricorrente della letteratura e del teatro di ogni tempo, da Penelope a Madama Butterfly, dalla Bibbia a Godot. A cosa hai pensato per la tua “attesa”?
La proposta di Mario Fortunato e del Napoli Teatro Festival Italia 2010 guidava la riflessione prima di tutto intorno a un’attesa “pratica”, quotidiana. Stare in fila in un ufficio pubblico, per esempio. Quali pensieri ci riempiono la testa? Che cosa accade intorno a noi, in quel tempo apparentemente vuoto, morto? Decidendo di ambientare il mio testo in un ufficio postale, l’attesa su cui mi sono concentrato non era solo quella dei cittadini allo sportello. Un ufficio postale è un luogo in cui passano, si incrociano, si raccolgono molte forme d’attesa. Di chi imbuca una lettera, di chi la aspetta. (Prima dell’era delle mail, molto più che ora!). Ho riflettuto su come addebitiamo spesso ai postini colpe non loro; di qui il titolo della breve pièce, L’innocenza dei postini appunto. Tutta giocata su un paradosso, da barzelletta, da “colmo”: un postino a cui la posta non arriva.
Quanto al tema dell’attesa in generale, da qualche parte mi è capitato di scrivere che vivere «in fondo, è aspettarsi – e aspettare: che qualcosa, qualcuno arrivi; o che passi».
La tua prima esperienza di scrittura è teatrale, appena diciottenne.
Dacia Maraini mi aveva chiesto di collaborare a un testo che raccogliesse le voci di scrittori e poeti sulle terre d’Abruzzo, Il respiro leggero dell’Abruzzo. Uno strano recital di letture e musiche. Fu portato in scena con Franca Valeri nel 2001 e poi con altri attori negli anni successivi. Nella prima rappresentazione, nell’agosto del 2001 a Gioia Vecchio (L’Aquila), la Maraini mi spinse sul palco accanto alla grande Franca Valeri facendomi improvvisare, se non attore, “dicitore”. Ricordo come fosse ieri la paura che mi strozzava un po’ la voce.
Che rapporto hai col teatro?
Forse il mio amore per la letteratura è passato per via teatrale. Fin da ragazzino il palcoscenico mi attraeva incredibilmente (improvvisavo perfino recite casalinghe, ispirate a libroni viola che contenevano la riduzione di grandi capolavori, da Shakespeare a Molière). La parola che diventa voce e gesto! Avrei recuperato il filo di questo remoto interesse imbattendomi nelle pagine in cui Proust racconta come fantasticasse anche solo intorno alla locandina di uno spettacolo che non avrebbe visto.
Secondo te la letteratura e il teatro riescono ancora ad agire sulla società?
Una domanda troppo difficile! Sarei tuttavia orientato a pensare che le “funzioni” della scrittura siano parecchie, anche e soprattutto imprevedibili.
Sarai a Napoli per questo Festival. Le tue impressioni sulla città?
Torno sempre volentieri. È una città che mi cattura. Mi piace attraversarla arricchendo a ogni transito una mappa sentimental-letteraria che da anni coltivo nella mia testa.