Musica a parte, se si lo si considera dal punto di vista esclusivamente teatrale “Il barbiere di Siviglia” è non solo uno spettacolo intrigante e divertente, ma soprattutto un meccanismo perfetto. Come d’altronde accade con altri capolavori quali “L’italiana in Algeri”, “La Cenerentola”, “Il turco in Italia”, a ben vedere; ma in questo caso, non vi dubbio alcuno che, grazie alle musiche rossiniane calate sul gustosissimo libretto dello Sterbini, la perfezione raggiunta è in misura di gran lunga assai maggiore.
Quel che conta è il ritmo, inesauribile, vorticoso, inarrestabile, che sublima e spinge la geometrica comicità rossiniana sino a sconfinare in clima assolutamente surreale.
E’ questo il senso di lettura più pertinente di siffatto capolavoro, colto interamente dalla regia di Italo Nunziata in questa edizione presentata al Teatro Comunale di Treviso, in coproduzione con il Comunale di Ferrara dove andrà poi in scena ai primi di febbraio; e che è una ripresa di uno spettacolo di qualche anno fa. Le scene di Pasquale Grossi - autore anche degli aggraziati costumi di gusto prettamente settecentesco, reinterpretati in chiave grottesca - disegnano un ambiente neutro, mostrando uno spazio delimitato da bianche pareti dove porte e finestre si aprono improvvisamente, attraversate da luci violente e decise – gialle, rosse, blu, verdi – come inattesi spiragli dai quali entrano ed escono tutti i personaggi. Una folla di valletti che volteggiano agili come ballerini, appare e scompare continuamente: restano in scena un amen, come si dice, e solo per porgere un oggetto (un foglio, un pettine, una parrucca) e riprenderselo poco dopo, sì che di fronte a noi poco o nulla resta fisso – giusto solo un tavolino, un cembalo, o poco più – lasciando agire i personaggi in vuoto voluto.
Di contro, i gesti sono spesso volutamente esagerati, affettati, parossistici, al fine di caricare (il termine da cui viene “caricatura” mi pare pertinente) il carattere dei personaggi, e spigerlo al massimo grado. Rosina si muove con svenevolezze da gran dama, Don Bartolo ricorda il Sior Todaro Brontolon di Cesco Baseggio, Don Basilio è la perfetta raffigurazione di un untuoso maneggione. Una scelta che, tuttavia, a mio parere non funziona però allo stesso modo con tutti.Va bene per la volitiva ragazza, posta nelle corde della brunita mezzosoprano Josè Maria Lo Monaco, efficiente nell’emissione e ferrata nella coloratura; va bene con il Don Basilio di Lorenzo Regazzo, sardonico e spettacolare come sempre; va bene con un petulante Don Bartolo, affidato ad un Alfonso Antoniozzi in splendida forma; ed infine benissimo con la trascinante figura di Figaro, anche perché qui ne troviamo uno esemplare, quello consegnato dal baritono Gezym Myshketa; il quale canta bene, con giusta ironia e leggerezza, e recita ancor meglio. Meno azzeccato invece l’Almaviva di Filippo Adami, che più che baldanzoso e passionale finisce per essere nervosetto ed isterico, e vocalmente mi è parso tutt’altro che esaltante: il timbro è asciutto, la coloratura va come va, l’intonazione è ondivaga.
Insomma, lo spettacolo riesce bene nel complesso, come somma di tanti talenti, compresi quelli del baritono Alex Martini (Fiorello) e di Novella Bassano (Berta). Meno nel particolare, a seconda della capacità del singolo: e il tenore fiorentino mi pare il punto debole di un cast altrimenti ben composto.
L’Orchestra Città di Ferrara non è compagine di rango, ma si è comportata bene, esibendo sempre una buona precisione; in più, in questo contesto, poteva contare sulla guida di una bacchetta sicuramente capace come quella dello spagnolo Sergio Alapont. Già assistente di Marco Armiliato al Metropolitan di New York, Alapont è un giovane musicista che si sta pian piano facendo pian piano conoscere ed apprezzare anche in Italia, e che ritorna a Treviso dopo il buon “Don Pasquale” dell’anno scorso. Tecnicamente ha le idee chiare, gesto preciso, buon rapporto con buca e cantanti; stilisticamente, nell’affrontare questo caposaldo rossiniano ha imboccato la strada di una concertazione asciutta, elegante, che non ricerca distillate preziosità strumentali, eppure le fa balzare evidenti all’interno di un discorso coerente. Con lui l’orchestra fa tutt’uno col canto, conferendo così alla musica rossiniana tutto il suo enorme valore teatrale: il massimo che si può desiderare, e richiedere ad un direttore di buon mestiere.
Il coro maschile Vox Sonus, diretto da Alessandro Toffolo, ha svolto molto bene il suo compito. Le luci erano disegnate dal talentuoso Patrick Latronica.
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