L'importante premessa da fare per questa recensione è che non ho una conoscenza approfondita del francese e tutti gli spettacoli teatrali con soprattitoli tendono a distrarre il pubblico (in questo caso il recensore).
Data questa importante considerazione, Gratte-ciel è un monumento teatrale di dolore e sofferenza. Gli attori in scena forniscono frammenti, come mattoni del potente edificio-metafora, di una primavera araba (e nello specifico algerina) deludente come tutte le rivoluzioni degli ultimi 50 anni.
Il concetto di rivoluzione come mutazione di uno status in favore di uno diverso è andato perso e non esistono monumenti alla memoria in grado di ricordarlo alle generazioni future.
Forse inutilmente, la compagnia Diphtong Cie diventa essa stessa il "monolite" per definire e affermare una memoria passata che rischierebbe di scomparire nella memoria collettiva. Questi attori, con un lavoro sul corpo e la parola pertinente, creano immagini statiche in un contesto dinamico. Ciò viene generato dall'utilizzo sapiente di proiettori che proiettano immagini in movimento, contrapposte agli attori monoliti portatori di memoria, come uomini-libri Bradburiani.
Il climax raggiunto alla fine garantisce la catarsi dello spettatore con la delusione post-rivoluzionaria che, come sempre, va solo a riportare il contesto ad una posizione prossima alla partenza e negando la tensione evolutiva tipica della guerriglia rivoluzionaria.
Un personale plauso va alla fonica, usata con parsimonia eccellente, per generare l'atmosfera di terrore tipica dei contesti di guerra.