Teatro

Il Macbeth di Luca De Fusco al Napoli Teatro Festival

Il Macbeth di Luca De Fusco al Napoli Teatro Festival

Una macchina tonitruante dal passo lento, elefantiaco, soporifero. Glamis stavolta “non” ha ucciso il sonno, il Macbeth di De Fusco ha risparmiato, ahimè, l’oblio salvifico dell’abbiocco. L’applauso a fine spettacolo dura all’incirca dieci minuti, dieci estenuanti minuti, dieci minuti in cui avete tutto il tempo di ripercorrere la vostra intera esistenza intrauterina e domandarvi quale smottamento placentale, quale pietanza ingerita involontariamente dalla vostra madre biologica possa aver determinato una ritorsione così subdola del fato tale da vomitarvi insensibile e inespressivo in mezzo al gaudio comune di un Mercadante sempre più glam.

Dal libretto di sala apprendiamo che si tratta di un lavoro sperimentale, per l’esattezza De Fusco parla di “sperimentazione” e “contaminazione tra linguaggi”: peccato che il tutto abbia un terribile sapore di opulenza e di quello che Carmelo Bene definiva come rappresentazione o Teatro di Stato. Un teatro che ha l’unica funzione di consolidare certi poteri, di rinsaldare il legame tra le gilde culturali à la page e il sistema teatrale partenopeo; un sistema vittima della sua stessa urgenza spettacolare, schiavo del pubblico degli abbonamenti e di una critica cialtrona e modaiola quando non impreparata e superficiale. Non importa che certe messeinscena ripropongano scialbi simulacri di recente tradizione spacciandoli per sperimentazione, non ha alcuna importanza che gli attori recitino con le medesime pause e pose di stampo mattatoriale, non importa che manchi un autentico respiro internazionale e sperimentale nella recitazione degli attori, nulla di tutto ciò ha importanza perché in questa città l’importante è “partecipare”, esserci, apparire.

Ma torniamo al Macbeth. Sempre nel libretto di sala, De Fusco ci dice che in questo spettacolo ha cercato uno stile “meno monumentale e più visionario” rispetto al rutilante turgore di Orestea. In effetti, sotto certi punti di vista qualcosa di interessante in questa direzione la si può scorgere nello spettacolo. La scenografia è piuttosto elementare: pochi praticabili, versatili ed essenziali, ma soprattutto una serie di sipari composti da sottilissimi fili neri giustapposti che, calati tutti insieme o in sequenza, creano una sorta di filtro tra la scena e la platea. Tale cortina filiforme può senz’altro autorizzare analogie con la dimensione onirica e visionaria del testo shakespeariano. Anche la musica si muove nella medesima direzione: poche note in sottofondo ripetute in maniera ossessiva e sguarnite di qualsivoglia climax. Le tre streghe ed Ecate sono ballerine della Compagnia Körper, ma le coreografie dei loro siparietti sono piuttosto deludenti: i bei corpi torniti e discinti sono viziati da una partitura cinetica vagamente puerile e prevedibile. Per quanto concerne la recitazione, quest’ultima forse costituisce il peggior difetto dello spettacolo; la dizione degli attori è a dir poco altisonante, tronfia, priva di sfumature, schematica, ingessata in un arco emozionale estremamente ristretto e a lungo andare greve e noioso. Dunque Macbeth ci ha provato a uccidere il sonno ancora una volta ma, ahimè, non si è accorto che il primo a dormire era proprio lui.