Spettacolo dell’anno, Regia e Migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica: lo straordinario lavoro dell'autore flegreo in corsa per tre categorie ai premi Ubu 2018
La triplice candidatura agli Ubu ha portato all'attenzione nazionale La cupa di Mimmo Borrelli, un lavoro grandioso che – come alcuni dei precedenti capolavori – ha rischiato di finire precocemente in archivio dopo esser stato visto da appena qualche migliaio di spettatori. Giovane vincitore del Premio Riccione nel 2005 con ’Nzularchia, considerato da alcuni critici il maggior drammaturgo italiano vivente, Borrelli non ha oggi la diffusione teatrale che merita, benché il suo teatro possieda una forza e una bellezza senza eguali in Italia, capaci di rompere gli argini convenzionali fra “addetti ai lavori” e “grande pubblico”.
Il teatro epico di Borrelli
Se si volesse compendiare in un solo aggettivo il teatro di Mimmo Borrelli, questo dovrebb’essere «sacro». Le sue opere rinnovano ostinatamente i molteplici caratteri del sacro: il segno liturgico della messa in scena, il mistero, l’oscurità della lingua, le formule rituali, la colpa e la riparazione, il sacrificio, l’incombenza del trascendente che attraverso le forme della natura punisce e governa il destino degli uomini. La vicenda del presente prende vita per sanare, superare, espiare una colpa che ha origine nel passato, com'è caratteristico del mito; così accade nel primo lavoro ’Nzularchia, e poi magistralmente nella Sciaveca e nella Madre. Non è allora un caso che per questo nuovo lavoro Borrelli faccia riferimento alla tragedia greca, una forma che nasce in ambito rituale sacro e che consegna all'eternità del mito le storie esemplari dei suoi protagonisti.
Nello straordinario talento del drammaturgo Borrelli c’è in primo luogo la capacità di attingere alle vicende reali di una piccola comunità locale, l’area flegrea a nord-ovest di Napoli, e di trasformarle attraverso la potenza del fatto teatrale in occasioni esemplari, che alludono al destino degli uomini attraverso metafore e simboli; e a questo processo risulta funzionale l’uso della lingua adottata, il dialetto di quel territorio, una parlata che si oppone al napoletano, essendone variante, per l’asprezza dei suoni e la chiusura delle vocali, che ne fanno un idioma oscuro a chi non lo parla, come una lingua iniziatica.
Così, mentre «cupa» in napoletano indica il viottolo di campagna, nella lingua di Torregaveta e dell'area di Bacoli – l’epicentro dell’epopea borrelliana – la stessa parola indica la cava di tufo, luogo che nel piano della realtà ambienta la storia in uno di quei luoghi di estrazione, talora abusiva, di materiale dal ventre della terra; mentre sul piano simbolico raffigura la condizione di vincolo e di prigionia dei protagonisti della vicenda.
Un universo favoloso e dannato
In quest’opera di Borrelli convergono in preziosa sintesi diversi elementi della tradizione teatrale e letteraria occidentale. In primo luogo la scrittura è in versi – scelta stilistica frequente nell'autore – con una metrica irregolare, come si conviene a una scrittura “popolare”, ricalcata sull'alessandrino, sull'endecasillabo, sull'ottonario, e in misura minore su altre segnature metriche; in rima baciata e ostinata, o meno spesso alternata. La fiaba, richiamata sin dall'epigrafe del lavoro «fabbula di un omo che divinne un albero», nutre l’opera del carattere panteistico della natura, con gli animali parlanti, la profezia dell’agave, e la “cupa” vendicatrice; oltre ad attivare l’espediente narrativo vero e proprio che ridefinisce la malattia deformante del protagonista come trasformazione dell’uomo in elemento della natura. Anche la bestemmia, declinata nelle forme più varie e colorite, se da un lato restituisce la forza logopoietica quasi magica della lingua di comunità, dall'altro inscrive i personaggi nel loro destino di dannazione, figure lugubri di un greve inferno post-dantesco.
Nella complessità della rappresentazione, voce ulteriore è il prezioso testo musicale; creazione viva di Antonio Della Ragione, che lavora a margine della scena sulle piccole sfumature emozionali di ciascuna singola esecuzione. Ben lontano dalle semplici sottolineature mimetiche e dalla vacuità di una mera colonna sonora, la tessitura di suoni di questo formidabile musicista esplora le coloriture psicologiche, oniriche, le voci dell’inconscio, creando una sorta di spazio psichico in cui la vicenda si realizza.
Chi potrà assistere alla Cupa?
Raramente nel teatro di oggi si può apprezzare una messa in scena tanto rigorosa e potente. Sappiamo che la compagnia ha lavorato a lungo per ottenere un risultato così eminente; e d’altro canto la lentezza e il tempo giusto delle prove sono l’elemento indispensabile a raggiungere un simile livello di verità teatrale. Questo è teatro in pienezza, lontano anni luce dalla medietà di quel teatro delle convenzioni, dalle intenzioni incerte e dall'estetica precaria, che pure abbonda nei luoghi teatrali grandi e piccoli d’Italia.
Gli attori sono perciò tutti ad un livello altissimo. Restano a lungo nella memoria il personaggio ossessivo dello straordinario Gennaro Di Colandrea e la voce maledetta di una magnetica Autilia Ranieri; stupefacente è la prova della giovanissima Marianna Fontana, al suo debutto teatrale. Ma varrebbe qui nominarli tutti, perché la compiutezza della rappresentazione è in questo caso, non per modo di dire, un risultato davvero corale.
Ora perciò non resta che augurarsi che la visibilità nazionale conferita dalle candidature agli Ubu – anche se la critica si è già espressa con toni d’inusuale entusiasmo e l'opera ha già vinto tre Maschere del teatro – possa consentire a questo magnifico lavoro di girare come merita, anzitutto con un primo ritorno sulla scena napoletana, dove tantissimi spettatori non sono riusciti a trovare un posto; e chissà che, approdando poi in Francia o in Germania, quest’opera non riesca ad ispirare il ritorno in scena dell’intera produzione di Mimmo Borrelli.