Teatro

Il Pinocchio di Pommerat nell'ovatta del Festival

Il Pinocchio di Pommerat nell'ovatta del Festival

Ci sono cose che sconcertano e inquietano, ne Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi: c’è l’elemento perturbante del doppio (burattino/bambino), il concetto di metamorfosi, l’irreparabile e inarginabile perdita degli affetti (la fata/madre), la morte e la rinascita, la regressione animale e la repressione dei desideri e degli istinti che si oppongono al consolidato ordine sociale. C’è qualcosa di inquietante un po’ in tutte le storie per l’infanzia e questo principalmente perché sono scritte da adulti per bambini, spesso con finalità educative. Dietro la rigorosa facciata di exemplum pedagogico umbertino, il Pinocchio di Collodi malcela, infatti, un intero universo demoniaco, fatto di assassini, mostruosi pescecani, giudici kafkiani, serpenti orribili, ladri, picei conigli avernali che trascinano piccole bare da morto. Tutti gli orrori e le ossessioni dell’infanzia dunque che solo la sapiente e sadica fantasia dell’adulto può orchestrare ed esorcizzare nell’apologo fiabesco.

La ricomposizione dell’ordine sociale e etico del mondo - sistematicamente messo in discussione dalla marionetta - attraverso la trasformazione finale di Pinocchio in bimbo in carne ed ossa, non può, in alcuna maniera, far dimenticare al lettore il violento conatus desiderandi rappresentato dal burattino, la sua ansia di trasgressione, le sue straordinarie doti affabulatorie che lo rendono non solo un superbo mentitore ma un vero e proprio facitore di mondi possibili.

Ora, tutta la pars destruens dell’apologo collodiano appena descritta svanisce pigramente nell’ovattata atmosfera dello spettacolo di Pommerat. Il narratore, presente fisicamente sulla scena, anestetizza i nostri sensi, costringendoci stolidamente a razionalizzare, a decodificare ciò che avviene sulla scena, boicottando così tutto il versante sensoriale dello spettacolo che si riduce, a conti fatti, al lavoro dei generatori di nebbia. Il verbocentrismo di fondo dell’opera di Pommerat trasforma i fantasmi e gli incubi dell’infanzia in presenze fin troppo concrete o non sufficientemente evanescenti. Myriam Assouline è un pinocchio davvero vivace e indisponente ma, asservita com’è al greve e sbiadito impianto dello spettacolo, finisce con l’autocensurarsi, sminuendo troppo la carica folle ed esiziale del personaggio. Da segnalare una interessante variazione rispetto al testo orginale. Si tratta della scena di Pinocchio e Geppetto nel ventre del pescecane: mentre nell’originale collodiano il burattino con arguzia e coraggio sfrutta la rumorosa dispnea del mostro marino per sottrarre sé e suo padre all’umida prigionia, nello spettacolo di Pommerat è il ciarlare ossessivo e ininterrotto di Pinocchio che provoca nausea all’animale e lo costringe a rigurgitare i suoi non più graditi ospiti. La variazione non è da poco poiché pone l’accento sulle capacità retoriche del burattino, sul potere che ha la sua parola di agire sulla reltà, di trascinarlo con sempre rinnovata enfasi nelle sue avventure narrate e rinarrate ad libitum.