Giustizia, vendetta, confronto/scontro tra civiltà sono i temi al centro della messa in scena del testo menzione speciale al Premio Riccione 2013.
Scritto e diretto da Patrizia Zappa Mulas, Chiudi gli occhi mette in scena il rapporto tra giustizia e vendetta con particolare attenzione al tema della violenza sulle donne, proponendo un costante raffronto tra due società: quella occidentale, presumibilmente “del diritto”, e quella mediorientale dove vige la Shari’a, la legge del taglione. Sullo sfondo del testo, la vicenda di Ameneh Bahrami giovane donna sfigurata e resa cieca dall’inumano ‘pretendente’ Majid Mohavedi, colpevole di averla aggredita con l’acido solforico e a sua volta passibile della pena di accecamento dopo l’appello portato avanti dalla stessa Ameneh.
L’azione si svolge a Barcellona: la città spagnola è protagonista di una delle primissime battute di uno dei personaggi, Xavier, e come se non bastasse l’apertura dello spettacolo è affidata a uno scalpitante flamenco. Il luogo è la sede dell’Associazione Internazionale contro le pene corporali. Qui Xavier, giornalista e fotografo catalano, e Abu Meddin, docente di diritto islamico, riunitisi per intraprendere una corsa contro il tempo e scrivere il ricorso nel quale si dovrebbe far leva sul riconoscimento dei diritti civili di Majid, cominciano un serrato confronto d’opinioni culturali e politiche nel quale ben presto prenderanno parte Annie (consulente legale specializzata nella difesa delle vittime della tortura, moglie di Abu Meddin e vecchia fiamma di Xavier) e il dottor Sobrano. Il caso della povera Ameneh diventa solo un pretesto per risolvere antiche questioni, facendo emergere rancori e sospetti mai sopiti. Come se non bastasse, il carico da 90 è incarnato dall’estrazione geopolitica di ciascun personaggio: Annie è francese, Xavier spagnolo, mentre Abu Meddin ha origini algerine. Tale impianto drammaturgico è infarcito di frasi fatte relative al senso del vedere ponendo domande tipo: a che serve avere la vista se non si è in grado di guardare senza pregiudizi? Oppure: vedere vuol dire guardare oggettivamente o ciò che vediamo è sempre frutto delle nostre proiezioni?
Dal punto di vista strettamente spettacolare ci troviamo di fronte a una scena volutamente vuota, senza quinte, eccezion fatta per alcune lunghe file verticali di sedie bianche impilate. Impostazione, abbastanza in uso per la verità, che – quando impiegata con consapevolezza – intende spogliare la scena, e più in generale il teatro, dall’aura finzionale e affettata, ma che in questo caso cozza vistosamente con alcune scelte tecniche: le suonerie dei cellulari, così come il suono del citofono, sono in diffusione, mandate cioè nell’impianto e quindi finte. In altri momenti la natura didascalica dell’uso del sonoro è quasi imbarazzante: ogniqualvolta Abu Meddin resta solo in scena ecco sentire estratti di brani orientaleggianti; si dice che fuori c’è il diluvio universale e l’effetto dei tuoni è presente di tanto in tanto, esclusivamente per enfatizzare battute-madri (“Sono solo", “Domani a Strasburgo avrai Akmadin Ejad al tuo fianco", e così via). Azzeccata invece è la scelta di mostrare un enorme orologio con l’esatta ora locale, elemento che sarebbe stato prezioso per ingenerare un effetto di suspense se il testo si fosse però preso la briga di contemplarne i meccanismi narrativi, e non solamente limitarsi a far emergere occasionalmente la necessità di affrontare la corsa contro il tempo per stendere il ricorso prima della sentenza. Tutto, insomma, resta sulla carta dandoci in pasto uno spettacolo, e prima ancora un testo, irrisolto tra la tentazione di un teatro d’impegno civile e la zoppicante apertura a una pseudo discussione critico-dialettica (“Chiudi gli occhi” termina con la notizia della sospensione dell’esecuzione da parte del regime mentre Annie – saputo che il bigamo Abu Meddin attende un figlio dall’altra moglie – acceca il marito con il caffè bollente).
Qualche anno fa, alla domanda “Perché non scrive testi teatrali?” Patrizia Zappa Mulas, non ancora coinvolta nell’esperienza di scrivere per la scena, ben attenta a tracciare una differenza tra autore di copioni e scrittore, rispondeva: “Sono una narratrice. Per scrivere un testo teatrale bisogna avere un’idea di teatro” (G. Tellini, Intervista a Patrizia Zappa Mulas. La Vita e la Forma, www.drammaturgia.it, 29 settembre 2010. Ecco, al di là della questione anacronistica “autore che scrive a tavolino per la scena”, resta da chiedersi allora che idea di teatro esprima “Chiudi gli occhi” e a ‘chi’ questa idea sia necessaria. Quella espressa dallo spettacolo è la cifra di un teatro che basta a se stesso, chiuso in se stesso, nei suoi riferimenti intellettuali, nelle sue tesi e certezze. Un teatro che riesce a fare sue certe tematiche solo superficialmente senza riuscire ad assimilarle e riproporle nei termini di motivi universali, considerando lo spettatore come mero uditore e non in qualità di un possibile interlocutore reale. Un teatro che non è in grado di minare sicurezze, innescare dubbi ma che è soltanto capace di metterli in vetrina, una vetrina sulla cui superficie l’artefice, il demiurgo ha il solo scopo di specchiarsi. D’altronde mettere al centro di un’opera teatrale l’essere umano, la sua realtà storica, i meccanismi politici in cui è incastrato, concentrarsi sui comportamenti sociali, le contraddizioni e i rapporti intersoggettivi al di là del bene e del male non è cosa da tutti. O sei Brecht, o non lo sei.