Posto a ridosso della linea di costa, il piccolo anfiteatro del Museo Nazionale Ferroviario di Napoli Pietrarsa ha ospitato in prima assoluta Il maestro di cappella dei mendicanti di Mariano Bauduin sullo sfondo di un cielo limpido e stellato. La nuova opera del drammaturgo e regista napoletano nasce nel solco della più schietta tradizione desimoniana, né ciò sorprende quando si pensi alla stretta collaborazione professionale e alla lunga consuetudine che legano Bauduin all’autore della Gatta Cenerentola.
Da De Simone provengono l’accostamento di stili eterogenei e di livelli retorici contrastanti, il gusto per la reinvenzione creativa della pagina antica, il connubio vitale tra popolare e colto. Tuttavia nella creazione presentata a Pietrarsa le tecniche collaudate del pastiche e della contaminazione appaiono declinate in forma poco efficace e poco coinvolgente, come in un esercizio diligente ma privo di profondità e di coesione poetica. L’opera appare incerta sia sul piano estetico che su quello ideologico.
L’idea di partenza è il confronto/scontro - evocato già dalla crasi che informa il titolo - tra due esperienze assai diverse del teatro settecentesco, The beggar’s opera di John Gay e Il maestro di cappella di Domenico Cimarosa. Bauduin immagina che nelle prigioni di Newgate (la stanza delle torture assemblata da Nicola Rubertelli, che funge da scena fissa) si ritrovino temporaneamente riuniti gli straccioni e le prostitute dei bassifondi londinesi e i membri della cappella musicale del re, trattenuti a causa di uno sciopero (con compiaciuta ambiguità tra presente e passato, la protesta degli strumentisti avviene prima che lo spettacolo abbia inizio, quando gli interpreti in costume si aggirano tra gli spettatori, confabulano, si consultano con il direttore d’orchestra e minacciano di disertare la performance a causa della mancata corresponsione degli emolumenti promessi). A ben vedere, però, le due dimensioni non si incontrano mai e si configurano come pannelli indipendenti e incomunicanti. In buona sostanza la pièce si lascia descrivere come un musical con screziature jazzistiche incentrato sull’interazione tra i malviventi, le prostitute e il carceriere.
Al centro della vicenda principale si innesta a mo’ di ampia parentesi il gioco cimarosiano dell’insofferente Kapelmeister (interpretato dal basso Luca De Lorenzo, che nonostante qualche incertezza si fa apprezzare per il buon volume e il bel colore) alle prese con un’orchestra variopinta e indisciplinata. La partitura del maestro aversano viene ripresa quasi alla lettera, con la sola aggiunta - piuttosto gratuita - di qualche raddoppio vocale delle linee strumentali solistiche nella parte conclusiva. Prima e dopo questa larga isola metateatrale, le interazioni del direttore e dei suoi orchestrali in costume con i personaggi plebei sono sporadiche e irrilevanti, frutto di una giustapposizione che non è divenuta intima fusione.
L’azione principale ispirata al mondo di John Gay si snoda invece sulla consueta alternanza di segmenti recitati e di numeri cantati ispirati agli stili più vari. L’ouverture annuncia programmaticamente la molteplicità dei riferimenti storico-musicali: un’eco dal Pulcinella di Stravinskij suona come l’omaggio all’archetipo della scrittura neoclassica, e non mancano ammicchi en passant a Pachelbel e a Charpentier. Ma qui si ripropone in miniatura lo stesso scollamento che segna la macrostruttura: le ‘citazioni’ vengono solo sfiorate dall’elaborazione moderna e partecipano a un gioco un po’ fatuo di facile riconoscibilità, senza che in esse sia dato scorgere un senso, una direzione, un progetto. I brani che si susseguono nel corso dell’azione spaziano dai Beatles (Lucy in the sky with diamonds) alla musica medievale (Ad mortem festinamus dal Llibre vermell di Montserrat, XIV secolo) passando attraverso una serie di pagine appositamente composte o arrangiate (le musiche originali e le elaborazioni recano la firma di Mimmo Napolitano e vengono eseguite da una doppia orchestra diretta da Renato Piemontese).
Per quanto riguarda i contenuti, sotto il tenue velo del travestimento settecentesco il lavoro di Bauduin vorrebbe essere una denuncia della corruzione dei nostri tempi e, in particolare, un grido di allarme e di dolore contro il declino culturale italiano. Purtroppo, però, quella denuncia sfocia in riferimenti inutilmente grevi (dalla contraffazione della voce di Berlusconi all’immagine del parlamento delle puttane), e quel grido resta soffocato dal didascalismo ingenuo (l’enumerazione dei capolavori nazionali) o dalla rivendicazione sindacale. Il maestro di cappella dei mendicanti, insomma, risulta un oggetto imperfettamente assemblato e a tratti velleitario, che non trova un proprio tono e un proprio centro.
Ciò non impedisce allo spettacolo di somministrare emozioni e suggestioni al pubblico, che infatti non ha lesinato gli applausi. Notevolissima, ad esempio, è l’interpretazione dell’aria Scuote e fa guerra dal Flaminio di Pergolesi fornita dal giovane soprano Federica Pagliuca, che risulta convincente anche come attrice. Un momento di pura poesia viene regalato agli spettatori dal piccolo Armando Aragione, un angelo-scugnizzo che canta con sapienza sorprendente e grazia innata. Tra gli altri interpreti, molti dei quali provengono dalla scuderia di De Simone, si segnalano Raffaello Converso nei panni del Capitano Macheath e Maurizio Murano in quelli del carceriere; brave come sempre Antonella Morea e Patrizia Spinosi.