Teatro

Il Vantone, un Pasolini alternativo eppure fedele alle sue icone

Il Vantone, un Pasolini alternativo eppure fedele alle sue icone

Ninetto Davoli ed Edoardo Siravo portano in scena il lavoro di Pier Paolo Pasolini sul testo plautino del Miles gloriosus.

Trattandosi di anni in cui si dedicava a lavori come il Vangelo secondo Matteo ed Accattone, l'apparizione de Il Vantone potrebbe apparire a prima vista stonata, nel percorso letterario di Pier Paolo Pasolini: il grande e “volgare” autore latino capace di battute e prese di posizione ultrapopolari, si invera all'interno della riflessione dello scrittore friulano, così severa e raffinata da esser spesso sfociata nella forma del dramma eistenziale? Eppure, di questa traduzione in romanesco del Miles Gloriosus che fece, non è difficile tracciare i contorni comuni al suo pensiero ed alle espressioni del suo intelletto: uno sguardo basta per ritrovare gli stessi temi di sempre nelle vicende descritte da Plauto, ed ancora più nei movimenti, nelle ambientazioni ed insomma nella verità della strada, anche se calpestata da calzari antichi.

Il centro ben piantato nella cultura popolare insomma resta saldo, ed altrettanto la raffigurazione di personaggi che negano le convenzioni coeve, allo stesso modo dei caratteri usati nel tempo di Pasolini, così come quell'immagine del padrone così chiara in questo Pirgopolinice, soldato spaccone campione di stoltezza, convinto dalle convenzioni del tempo (e quindi anche per colpa dell'ambiente) che sia sufficiente un ruolo ed una divisa per ottenere i piaceri materiali della vita, dalla ricchezza al successo con le donne.

In una scena che tiene a presentarsi alquanto rigorosa nella ricostruzione storica, non è molto chiara la presenza, sia all'inizio che alla fine, degli stessi personaggi in versione moderna che entrano ed escono in un caos controllato che sembra una sigla di apertura, fin quando, dopo l'introduzione ed i primi personaggi che si presentano, ecco entrare Ninetto Davoli (il "servus callidus" Palestrione), ma non in scena, bensì ai piedi del palco, luogo in cui resta ad osservare la scena come uno spettatore, in uno spazio a metà fra essa ed il pubblico, senza essere nemmeno inquadrato dalle luci; è lì a commentare la «sceneggiata» e parla poi nella penombra; e ci rimane, in quella penombra, durante tutto il discorso introduttivo, come descrivendo con distacco quel quadro con una vista di sbieco, una soluzione che piace molto, ed aiuta a creare e mantenere il tono confidenziale mentre rimane ad illustrare il racconto creando un originale trait d'union fra gli accadimenti e gli spettatori.

Dopo l'interessante avvio, però, la prima parte dello spettacolo diretto da Federico Vigorito risente di alcune incertezze dello stesso protagonista, che non è in sintonia con il quadro così movimentato della narrazione, talvolta per una voce bassa e poco espressiva nonostante il supporto del microfono, talaltra a causa di movimenti non molto ben coordinati con quelli altrui. La compagnia, che ripropone con un ritmo adeguato la storia plautina fatta di stratagemmi, infingimenti e punizione finale per il Vantone sul quale infine si scarica la “sapienza popolare”, quel segno del volgare (=del volgo) e quella furbizia che sopravanza l'autorità, trova una sintonia via via crescente, con una vetta decisa rappresentata proprio dall'ottima interpretazione di Edoardo Siravo (il Vantone), che ha saputo infondere al personaggio quella continua verve che lo pone sempre in bilico fra il ridicolo insito nel carattere ed una sua umanità non facile da ottenere, fino al suo lato sconfitto finale, al quale tuttavia non han giovato i tagli operati nella narrazione, che con una certa fretta ha sorvolato su alcuni passaggi esplicativi.