Qualche domanda a Carlo Buccirosso, simpatico e poliedrico artista napoletano, autore, regista e attore nella commedia "Vogliamoci tanto bene" in scena al San Babila di Milano dal 10/02/2009 al 08/03/2009.
Come nasce lo spettacolo?
La storia si svolge a Napoli, ma potrebbe svolgersi a Firenze, Roma, Bologna, Genova o in qualsiasi altra città d’Italia.
Lo spettacolo nasce da questa mia voglia di esprimere un dispiacere: credo, infatti, che l’istituzione familiare abbia perso il senso, il valore. La famiglia si è persa completamente e io sono molto rammaricato di ciò. Ho sempre amato la famiglia e ho sempre avuto un legame particolare con i miei genitori e con mio fratello, anche attualmente.
Il valore familiare è una cosa fondamentale, è un rifugio. Credo dia proprio un senso alla vita aldilà di tutti gli altri sensi che si possono trovare nella propria esistenza. Ho riscontrato nell’ultimo decennio, che questa è un’istituzione importantissima. E mi è scaturita una grande energia per scrivere questo spettacolo: una storia che parte, in senso autobiografico, da questo malumore, da questa rabbia che si è trasformata nella lunga storia di Mario Buonocore, impiegato delle poste che decide di tornare nella casa che è stata dei genitori ed ora è occupata dalle due sorelle con le quali il protagonista ha avuto dei dissapori soprattutto per la presenza del marito di una delle due sorelle che, ovviamente, non era uno stinco di santo. Morto il cognato, Buonocore decide che è venuto il momento di finire il decennale esilio in provincia.
Torna nella famiglia perché, morto anche il cane a cui era affezionatissimo, vuole ritrovare un po’ di serenità. Purtroppo non è così perché tornando trova quello che lui definisce le schifezze della vita: “Io ho fatto tanto per trovare la pulizia della famiglia, per tornare in casa e invece ci trovo le stesse fetenzie che ci stanno nel mondo”. Si accorge, quindi, che il male incarnato dal cognato quando era in vita è ormai radicato nella famiglia. Il tutto accompagnato dalle musiche di Diego Perris.
Quali sono le difficoltà che incontra?
Appena arrivato a casa cerca di sistemare nel soppalco questo enorme bagaglio trovando, però, delle difficoltà già a salire e a sistemare la valigia. Più che altro le difficoltà che troverà poi non sono ovviamente logistiche ma saranno psicologiche, sia nei rapporti con le proprie sorelle sia in quelli con gli estranei. Già, perché in questa famiglia ora ci sono anche degli estranei che circolano.
Lo spettacolo è carico d'ironia. Qual'è la sua idea in proposito?
L’ironia ci vuole sempre, comunque. Qualunque sia il tipo di storia che interpeto e che vivo, che sia in televisione che sia un film che sia una commedia. L’ironia è molto di più della comicità grossolana: è sarcasmo, è sottile e fa molto più divertire, credo, il pubblico oggi.
In questo spettaolo vi sono molti attori giovani. Qual'è il suo rapporto con loro?
I giovani vengono dal mio laboratorio e li conosco da molto tempo. Da sette anni sono in palcoscenico ma lavorano con me da una vita, da quando fecero appunto il laboratorio, quindi dal 1994.
A me non piace lavorare con gli attori vecchi. Vecchi di tradizioni, intendo, proprio non lo sopporto. Posso lavorare anche con un attori ottantenni, ho provato, ma il problema è quando sono vecchi dentro. E possono esserlo anche i quarantenni. Quello non mi piace proprio mi viene la tristezza, l’apatia. Per me il teatro è completamente moderno anche se c’è una struttura molto tradizionale ed io insegno soprattutto ai miei giovani, e anche a chi sta con me che non ha più una realtà verde, ad essere moderno in scena. Altrimenti non ci riesce proprio a stare in Compagnia con me.
Di questa commedia è autore e regista, oltre che attotre. Quel'è il ruolo che la stimola maggiormente?
In questo momento mi piacciono tutte e tre da morire. Rinunciare a fare l’attore sarebbe molto dura. Anche se purtroppo si perde la libertà perché essendo regista ed essendo autore si ha una grande autonomia di scegliere di creare. L’attore è molto limitato. E’ ovvio. Anche in ciò che sto facendo ora, con questi film per la tv, bene o male metto qualcosa di mio però nel ruolo di regista o attore è diverso. La scrittura e la regia ti danno proprio la possibilità di dare una linea a quello che fai, di creare la struttura o di dirigerla. Si, se dovessi scegliere farei l’attore anche se ad ora quello che mi stimola di più è scrivere. Mi piacerebbe scrivere anche per altri attori se mi dessero questa possibilità.
Oltre al teatro che ne pensa di cinema e televisione?
La televisione è al terzo posto ma staccata di tanto. Io faccio televisione ma comunque sono attore non faccio la tv d’intrattenimento. Non faccio mai le serate dove devo fare lo spiritoso o il pagliaccio per guadagnare la pagnotta. Se mi vogliono fare qualche intervista e riesco simpatico bene. Preferisco fare cinema o fiction.
Come cinema ho iniziato facendo tre film con Vincenzo Salemme. Poi ho lavorato con Vanzina e con altri registi tra cui Paolo Sorrentino e Leone Pompucci. La parte in cui ho dato il meglio di me, come completezza di ruolo, e dove viene fuori una comicità, un’ironia e un po’ tutto è sicuramente “In questo mondo di ladri”. È un film diretto da Carlo Vanzina e prodotto da Cecchi Gori, purtroppo nemmeno tanto bene perché è uscito in un periodo sbagliato che quindi ha un po’ distrutto il film. A detta di tutti è piaciuto da morire ma è stato sbagliato appunto il periodo e quindi non ha incassato molto.
Spesso viene definito quale "stereotipo del napoletano medio o piccolo-borghese" Che ne pensa?
Siamo in un mondo in cui si tende ad incamerare e a chiudere nelle definizioni ma se poi stiamo ben attenti ci accorgiamo che le cose sono ben diverse. Avrò interpretato quel tipo di figura tre o quattro volte perché il regista che mi ha diretto tendeva a farmi fare quel tipo di parte. Se si guardano altri film, però, come quello di Sorrentino o “In questo mondo di ladri” allora sono cinico. Come in questa commedia: sono stracinico altro che piccolo-borghese o vittima, altro che il classico napoletano medio, non è proprio vero.
Non teme che girando l'Italia con "VOgliamoci tanto bene" gli spettatori possano fermarsi solo alla comicità esteriore della commedia?
Succede solo a Napoli perché non c’ è cultura. Questo spettacolo sta avendo più successo fuori che a Napoli. Anche a Napoli l’ho avuto, ma gli spettatori ridono durante tutto lo spettacolo nei pezzi in cui c’è da ridere e alla fine con un ipotetico applausometro fanno come applausi possiamo dire ‘sette’ mentre nel resto d’Italia ridono la metà, ma alla fine fanno, se è possibile, anche ‘dodici’ come applausi perché apprezzano proprio la storia e il significato. A Napoli e provincia dove c’è poca cultura invece tendono solo a voler ridere senza capire perché stanno ridendo purtroppo. E a volte mi sento dire “però pensavo si ridesse di più”. È una cosa che ho sentito solo a Napoli mentre qua ho avuto solamente “commedia stupenda, complimenti” non è che dicono “peccato si ride un po’ meno” ma semplicemente “commedia meravigliosa”. Il valore della commedia è solo se si ride?
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