Teatro

JESSICA PRATT SALVA IL RIGOLETTO DI PADOVA

JESSICA PRATT SALVA IL RIGOLETTO DI PADOVA

Ha fatto ritorno al Teatro Verdi di Padova, a soli tre anni dalla sua precedente apparizione, il “Rigoletto” di Stefano Poda: uno spettacolo già inserito nella stagione 2010, e che molto fece discutere per le sue scelte stilistiche, peraltro peculiari di questo poliedrico artista. Scelte ribadite anche negli allestimenti che per Padova e per altri teatri veneti – quelli cioè di Bassano e di Rovigo - ha poi realizzato nei due anni seguenti, affrontando prima “Lucia di Lammermoor” e poi “Nabucco”; e presenti anche ne “La forza del destino” cui toccava inaugurare la stagione 2011 del Regio di Parma. La mia impressione, dopo averli valutati in scena, è che l’artista trentino ragioni più come scultore/scenografo che come regista vero e proprio, dal momento che questi suoi spettacoli presentano costantemente due aspetti caratteristici e fondamentali. Da una parte, l’impiego di impianti scenografici grandiosi, nei quali svolgono un ruolo privilegiato imponenti manufatti scultorei, sia statue a tutto tondo che figure in basso od altorilievo: ieratici motivi plastici ora monumentali e solitari, ora ripetuti in maniera seriale, talvolta scomposti e ricomposti in un gioco di suggestione visiva, ma sempre operando con grande raffinatezza. Dall’altra, balza evidente la scelta di una regia molto asciutta, sebbene mai priva di propria sensatezza, nella quale Poda ama ricreare sovente dei veri e propri ‘tableaux vivants’, situazioni molto belle d’effetto ma talora alquanto statiche - e questo compiacimento estetico direi sia l’unico neo dei sui lavori - sebbene infine esse permettano di lasciare massimo spazio al dilagare del canto. Per questo “Rigoletto” l’impianto di base prevede un meccanismo rotante suddiviso in quattro grandi quadri scenografici diversi, delineando così non solo luoghi diversi, ma anche altrettante situazioni psicologiche differenti: un algido ambiente nel quale grandi statue bronzee giacciono spezzate in teche di cristallo, tra una moltitudine di pallide maschere funebri mute nel loro mortale silenzio, per la corte ducale; un ambiente candido dalle slanciate pareti con finestre significativamente murate, per l'intimità domestica di padre e figlia; un proiettarsi al cielo di metallici torsi virili trafitti da frecce, sotto i quali trova posto il coro dei cortigian; un cumulo di rovine e di lacerti marmorei, per il tragico finale. Seguono pari pari questi assunti di base anche i funerei e lunghi costumi (unica eccezione, la candida veste di Gilda), l’impiego di angosciosi mimi, e una scelta di luci affilate e algide: tutti supporti ideali per una regia vigorosa, dalla rarefatta gestualità e solidissima nell'impianto drammatico, che origina uno spettacolo indiscutibilmente originale, nel quale il rapporto tra musica e resa visiva raggiunge apici di grande intensità.
Il Rigoletto che doveva essere in origine dell’ucraino Vitaly Bily, è finito nelle mani del romeno Ionut Pascu, classe 1977, che gode di buona fama in patria in qualità di solista del Teatro Nazionale di Bucarest; e che ha voluto recentemente diplomarsi in direzione d’orchestra al Conservatorio Verdi di Milano. In tale veste non lo conosciamo; ma come baritono verdiano ha dato qui buona prova, anche per la grande musicalità messa in campo: il timbro volge allo scuro, il colore denso e quasi tenebroso; il suono, sempre pieno e robusto; il fraseggio, ben articolato; la recitazione, giustamente espressiva. Dunque, nell’insieme un Rigoletto assai persuasivo, che ha trovato giusta varietà d’accenti nel serrato confronto con i cortigiani, e poi nell’accorato duetto con Gilda appena sedotta, con un «Piangi fanciulla piangi» di grande partecipazione emotiva.
Nelle recite del 2010, sulle locandine per il ruolo di Gilda era indicato il nome di Jessica Pratt, che purtroppo mancò all'ultimo momento all'appuntamento per una indisposizione di stagione. Questa volta invece il soprano australiano c’era, ed ha donato al pubblico padovano tutto il ben di Dio che sa spargere a piene mani: intonazione perfetta, splendida voce, colorature da manuale (cioè fluide e nitide al massimo grado), ma soprattutto assoluta mancanza di smancerie e puerilità in un personaggio troppo spesso svisato da interpreti sbagliate, e che qui invece abbiamo trovato esattamente immedesimato. Inutile dire che il momento magico era quello di «Caro nome», vertice vocale assolutamente da ricordare; ma pure nel duetto col padre, condotto con esemplare sicurezza e convinzione, e sopra tutto nella toccante confessione di «Tutte le feste al tempio», la Pratt ha mostrato tutta la sua vera, e grande razza sopranile.
Paolo Fanale non è riuscito nell’intento di plasmare un Duca convincente, soprattutto per il limitato volume di voce che di per sé, volendo, sarebbe anche bella; e poi sbaglia tutto il personaggio, il quale più che un signorotto rinascimentale, sensuale e libertino, pare un giovinastro di periferia alla ricerca di sesso facile. E poi è parso generico in ogni momento, da « Questa o quella» a «E’ il sol dell’anima», sprecando l’occasione preziosa di «Ella mi fu rapita…Parmi veder le lagrime», sino ad essere privo del necessario slancio virile in «Bella figlia dell’amore».
Nei ruoli secondari hanno ben figurato Daniela Innamorati (un’ottima Maddalena), Mirco Palazzi (spavaldo Sparafucile), Abramo Rosalen (buon Monterone); nelle parti di contorno erano impegnati William Corrò (Marullo), Orfeo Zanetti (Borsa), Francesco Milanese (il Conte di Ceprano), Alessandra Caruccio (la Contessa di Ceprano), Caterina Sartori (il paggio).
L’Orchestra di Padova e del Veneto era nelle mani di Giampaolo Bisanti, che ha offerto una concertazione di alto livello professionale, calibrando bene il rapporto tra voci e strumenti, e trovando sempre i giusti colori. Deludente e greve nell’insieme invece l’apporto del Coro Città di Padova diretto da Dino Zambello.