Splendido lavoro della compagnia Meno Fortas di Vilnius, diretta da Eimuntas Nekrošius.
Il teatro che ha la personalità giusta per interpretare e per spiegare: con A Hunger Artist, il regista lituano Eimuntas Nekrošius riesce in una operazione a prima vista complessa, come inevitabilmente è agire sopra Franz Kafka, e lo fa sia con una lettura originale ed intimamente armonica del testo, sia con le interpretazioni tutte sopra la media dei suoi attori, dando nell'insieme una bella lezione, quella di potersi permettere molte apparenti licenze, quando l'idea e l'azione tecnica consequenziale si mantiene ad un livello nobile e profondo.
"Un digiunatore" è conosciuto come l'ultimo racconto del signor K, e come spesso accade la traduzione italiana del titolo non consente nè di comprendere all'istante lo spirito, nè di percepirne l'atmosfera, quindi partiamo dal titolo originale: Ein Hungerkünstler significa "Un artista della fame", e nel racconto originale prevedeva, come base situazionale, la figura del digiunatore (maschile) rinchiuso per esibizione in una gabbia, mentre qui il/la protagonista è donna (Viktorija Kuodyté), ed è pienamente libera di muoversi ed interagire con gli altri (Vaidas Vilius, Vygandas Vadeiša e Genadij Virkovskij); e non sarà certo l'unica variante formale.
Ebbene, proprio in questo dipanarsi su un confine così labile, fa dimostrare sempre una costante sicurezza nell'afferrare l'essenza, anzi quasi riscrivendola ed aggiungendo qualcosa: un merito da non sottovalutare, a partire dal mezzo sorriso che non si spinge mai a completarsi ma anzi resta sempre -così kafkianamente- nel lato amaro e straniante; o con quella canzone della nostra infanzia sentita accennare al Digiunatore; o nella reazione al trattato scientifico sulla digestione; oppure nel calarsi nei sogni che spiegano ciò che accade in superficie, ed ancora nel grande numero di dettagli e di elementi che si spargono e scompaiono a grande velocità o con accurata lentezza in una scena che perennemente fa tempio, nell'arte e nel dramma, di un corpo e dei suoi disagi.
Ogni segmento potrebbe anche rischiare di rimanere un concetto chiuso (ricordiamo il modo in cui il Digiunatore trasforma i suoi diplomi in una tomba), ma questo viene evitato dal loro concatenamento, che costruisce una metodologia della sequenza. Passaggi e passaggi continui che vanno dalla spettacolarizzazione del corpo ai tormenti dell’artista, dalla fastidiosa sfiducia dei guardiani verso di lui al suo vero martirio, che non è quello della privazione della nutrizione bensì quello di una via via maggiore insensibilità del pubblico, fino al declino ed al momento in cui esso mostra di rivolgersi ad altro genere di esibizioni.
Uno spettacolo elegante e da ammirare nei dettagli, quando le necessarie implicazioni semiotiche possibili del testo vengono sollevate con leggerezza e delicatezza dai quattro straordinari protagonisti, e trasportate ora su giacigli di fiori che sostituiscono la paglia del testo originale, ora con indumenti che si scambiano avvolgendo oppure offrendo il corpo-involucro al pubblico giudizio, quando di ciarlataneria, quando di ammirato seguito. Del resto, il Digiunatore non truffava, anzi lavorava del tutto onestamente: era il mondo diffidente, a privarlo del suo riconoscimento. E la sua Arte primigenia è paragonabile a quelle di cui non possono darsi spiegazioni a meno di non sentirle già, di non averne introiettate le connessioni nella propriocettività; come diceva Louis Armstrong: "Cos’è il Jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai".