Teatro

La Corte della Formica - Quarta serata

La Corte della Formica - Quarta serata

Ingranaggi di Giovanni Esposito (che firma anche la regia insieme con Simona Falco) apre la quarta serata della Corte della Formica: subito un accenno di suicido rende cupa la scena davanti ad un grande orologio antico, ma il tentativo va a vuoto per il subitaneo arrivo di un Grillo parlante, ovvero di un uomo che prende quasi per mano la coscienza dell'aspirante suicida, ed ancor più aspirante scrittore, non tanto per dissuaderlo quanto per accompagnarlo in un percorso in cui cercherà di accendere una luce sulle sue possibilità e sul corso del Tempo.
Gi nel primo discorso (“Forse cercavi un'ispirazione? Un punto di svolta?”, fino a pronunciare una parola, “destino”, che lo fa sobbalzare), si avverte una eco di Camus, e di un principio che si fa presto evidente: il Tempo non aspetta, non è solo è la dimensione attraverso cui misuriamo le nostre azioni nell'universo... ma forse se ne può mutare il corso, e così attraverso un orologio magico gli offre l'opportunità di cambiare il corso degli eventi.
Gli fa rivivere scene in cui avrebbe potuto comportarsi diversamente, ed osserva il tempo che si è perso fra una compagna isterica che lo tormenta a ritmo di tango ed il dodicesimo editore che gli spiega il senso merceologico dell'Agire e del suo lavoro di aspirante scrittore. Eppure, sebbene si trovi dentro quel sottilissimo filo che collega il Tempo al Destino, non fa nulla per cambiarne il corso.
Il messaggio arriva chiaro, ci sono momenti che non seguono il tic dell'orologio, quindi non si fa nulla per cambiarli, e bisogna accettarli.
In un ambiente costruito a metà fra Dickens ed i fratelli Cohen, molto adatto a far sentire quasi la naturalezza, della mancata sincronizzazione delle lancette interiori, è una convincente prova complessiva dei protagonisti e della loro continua corsa col tempo, che troppo spesso non concilia ciò che desideriamo con ciò che arriva nella vita, ma fornisce in questa stessa discronia anche il senso della speranza, se non altro perché, come disse Herman Hesse, anche un orologio fermo segna l'ora giusta. Due volte al giorno.

Sono dei veri e propri tableaux vivants, ad aprire invece la scena di Interno's di Ivan Luigi Antonio Scherillo, dove Marco Serra si ritrova in una foresta del Tempo con cinque statue animate in sfumature di bianco e grigio su arpeggi di chitarra.
Spaesamento, mancanza di logica, sarcasmo, senso del paradosso e derisione lo accolgono: ce n'è a sufficienza per immaginare quanto sia poco confortante e rassicurante per la mente umana ritrovarcisi all'inizio di quello che sembra un viaggio in un luogo sconosciuto (“Detesto la logica, è così banale!”); quel luogo è il Tempo stesso, e davanti il nostro viaggiatore se ne ritrova proprio il Guardiano.
L'uomo comincia a districarsi fra i personaggi, ascolta le storie di un ebreo-polacco vittima del campo di concentramento di Auschwitz e di un omosessuale russo (che in comune hanno una morte portata dalla mano di chi uccide in nome di un Dio), e scopre che gli altri non raccontano la loro storia personale, ma sono lì per raccontare al mondo la follia vissuta durante la loro presenza nel mondo.
Lui stesso in quel momento sa di non essere una persona, ma per capirne il motivo deve proseguire nella conoscenza dei personaggi, finché comprende di essersi fermato, e non perché sia morto, quanto perché ancora non è nato, e non può quindi far altro che ascoltare, intravedere cosa lo aspetta, ma anche come venirne eventualmente fuori, volendocisi applicare (“Cosa c'è di più importante della felicità? Godersela”).
Lavoro corporeo, tempi serrati, muscoli sempre in tensione: la scelta della regia si posiziona decisamente su una fisicità molto sostenuta, che non confligge affatto con un tema che appartiene invece alla sospensione e quasi all'incorporeità, anzi, fornisce un alto senso ideale alla cesura che suggerisce di continuo, fra anime erranti e corpi viventi, fra la natura istintuale e l'agire per il proprio bene, punteggiata di ironia (“Che peccato vedere un essere così bello diventare una... persona!”), e coronata da una splendida battuta finale.

Atmosfera pesante, e nessuna parola per oltre metà della rappresentazione: Homocaust di Massimo Stinco fa di tutto per far cadere subito nell'atmosfera pesante, lugubre, di quattro uomini fermi, accanto ognuno ad una valigia, sui quattro angoli di un quadrato che sembra un ring.
La successione di azioni forse è quella più adatta a cercare di far rivivere la scena, soprattutto perchè la struttura narrativa fa presa quasi esclusivamente sul morso emotivo che suscita sia l'argomento, sia la rievocazione dei fatti: i quattro si agitano, si mescolano, si contorcono, camminano, la musica si fa assordante, poi cadono, tornano a terra, si rialzano lenti, uno di loro mette il rossetto, si accarezzano, si rimescolano, si spogliano, danzano, poi restano ancora fermi, ognuno apre la sua valigia e ne escono travestimenti e fotografie, poi ancora musica e contorcimenti, finchè il parossismo è coperto dalla voce fuori campo, prima in tedesco poi in italiano, una voce nazista che rivela il vissuto storico: è la rappresentazione della tragedia parallela a quella degli ebrei nell'olocausto, quando 100.000 omosessuali vennero arrestati, 60.000 condannati a pene detentive ed un numero sconosciuto internati in ospedali psichiatrici, in seguito all'emanazione del “paragrafo 175”, che inasprì pesantemente le leggi omofobiche.
Fra i racconti delle sevizie e delle torture, i quattro si spogliano per vestirsi con i triangoli rosa (i rosa Winkel), il marchio di stoffa che veniva cucito dai nazionalsocialisti sulla divisa degli internati per omosessualità. Con l'ambiente sonoro creato dalla stupenda Stay degli U2, viene ricordato che oggi 87 paesi continuano nel mondo a condannare l'omosessualità: un lavoro che dopo aver agito sui corpi degli attori, intensamente impegnati e portatori di espressione pressoché esclusiva sulla scena, si fa carico anche di fornire un supporto di forte impatto visivo sulle coscienze e sulla memoria.