Teatro

La foresta luminosa di Daniele Finzi Pasca avvolge il Teatro Festival

La foresta luminosa di Daniele Finzi Pasca avvolge il Teatro Festival

Bianco su bianco è un elegante e delicato racconto, una storia di gesti e di inventori e cercatori di parole, giuste e/o nuove, tradotte sul palcoscenico con soluzioni originali.

È per questo che andiamo a teatro: non sarà certo il solo, ma seppur declinabile in vari modi, uno dei motivi più intimi è questa sensazione di magia ed appagamento davanti ad una idea in cui si intreccia un soggetto ed una narrazione forti come lo sono le cose in cui ciascuno può riconoscersi, raccontate come in questo caso puntando direttamente alla sorpresa delle emozioni.

Bianco su bianco, l'elegante e delicato racconto di Daniele Finzi Pasca, lascia risuonare in sala la levità di una storia che trasporta in un mondo adulto raccontato in modi che destano l'ascolto-bambino, dove “gli abbracci sono echi di gesti antichi”, e vengono tradotti con l'apparente semplicità che sa celare solo una perizia fuori dal comune. Sulla scena ci sono Helena Bittencourt e Goos Meeuwsen, attori, acrobati e clown che dissimulano se stessi per riapparire di volta in volta nelle vesti di ciascuna specificità, sempre con l'estrema attenzione al dettaglio che parla della loro abilità, da quando Goos in versione improbabile tecnico di scena le ronza intorno con atteggiamenti da mestierante, in realtà intrecciando un rapporto che a volte è di compagni di gioco simbiotici che rivelano grande destrezza da giocolieri, altre propone la classica figura dell'elemento disturbatore del narratore, fra infimi dettagli che ne accentuano la resa: le cento e più lampadine segnano il racconto con lampi prima rari e poi sempre più frequenti e straordinariamente sincroni, aiutando a comporre la scenografia delle piccole cose, quella in cui un foglio di carta velina che viene fatto volare vale più di un fondale o di un arredo, e dove la luce stessa diventa materia da far ondeggiare, o raccogliere in una busta.

Uomini come lui hanno la brutta abitudine di pensare che se c'è dolcezza o gentilezza nei paraggi, c'è qualche fregatura...”: davanti ed intorno ai personaggi di Goos, Helena si muove spesso come una bambola dagli ampi gesti didascalici e gentili, parla con un piacevolissimo accento portoghese-brasiliano, e racconta una storia di inventori e cercatori di parole, giuste e/o nuove, parole che tradotte sul palco combaciano con soluzioni scenotecniche originali che accompagnano temi potenzialmente gravi, come una malattia, su un tappeto di levità intessuto con una foresta di lampadine ed una testa d'ippopotamo, percorsi che alla fine riannodano soavemente la premessa narrativa (“c'è bisogno di allegria, per scalare certe pareti”) senza nemmeno terminare in un possibile finale indulgente al patetico, anzi: con la scelta di un uomo piccolo che si riscatta grazie all'amore di e per una ragazza, si ritrovano i fili di una commovente narrazione che via via svela i richiami di ogni gesto passato, legando tutto con la stessa nuance, una tavola su cui ogni cosa si ritrova ton sur ton, bianco su bianco.