Parlare delle cecità in teatro è parlare di una tradizione antica quanto il teatro stesso: la cecità di Tiresia, la cecità degli oracoli, la cecità di Omero, la cecità di Gloucester nel Re Lear, la cecità della mente nell’Enrico IV di Luigi Pirandello, I ciechi di Maeterlinck, la cecità che come dice Viviani vede semp’ e ccose ‘e n’ata manera. Un diaframma tra la realtà degli occhi e la realtà dell’anima. Allora, forse, è il caso di domandarsi immediatamente se allestire quel capolavoro teatrale che è La musica dei ciechi di Raffaele Viviani significhi affrontare un teatro di tradizione oppure la tradizione del teatro.
Per chiarire: esistono delle tematiche che il gran teatro letterario ha affrontato con suprema poeticità pur restando nell’ambito del teatro di tradizione, detto anche “teatro all’antica”, assumendo la cecità come sublime metafora dei conflitti dell’anima, come è appunto per l’accecamento di Edipo o quello del Conte di Gloucester; poi, da l’altra parte, un teatro d’arte (non useremo il termine popolare!) ha adoperato le stesse tematiche ma ne ha fatto argomento per una drammaturgia più immediata, ma ugualmente efficace, in quanto affidata a degli interpreti che ne erano autori stessi; meravigliosamente Ferdinando Taviani ha distinto due prassi di scrittura scenica: Uomini di scena e Uomini di libro, Autori di teatro e Attori che scrivono. Evviva la grande critica teatrale italiana!
Per questo motivo Silvio D’Amico sosteneva che le commedie di Raffaele Viviani non sarebbero potute sopravvivere senza l’interpretazione del loro autore. Eppure, oggi, recitiamo ancora i testi di Raffaele Viviani, entrato a far parte della storia del teatro europeo come Teatro d’Arte: affrontiamo un teatro attivabile attraverso dei meccanismi scenici che si riferiscono alla scuola orale del mestiere di comico, del mestiere di musico, del mestiere di teatrante e che a un pubblico che di quella cultura è fruitore, ma anche erede, si rivolge. Non possiamo allestire nessun testo di Raffaele Viviani (discorso ben diverso da Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo o Dario Fo) senza confrontarci con Raffaele Viviani, senza confrontarci cioè con il teatro di tradizione a cui Viviani si riferiva: la tradizione dei “comici” di cui Napoli, all’inizio del Novecento, aveva ancora memoria, e di cui i teatranti locali seguivano le orme.
Questo esclude immediatamente qualsiasi altra considerazione critica, scientifica o intellettuale che si voglia fare su un testo di Viviani, e ciò valga sia per la musica, o meglio per le “canzoni”, che per la prosa.
In merito a La musica dei ciechi il discorso si fa ancora più complesso. È letteratura la metafora della cecità dei musicisti-gavottisti di Santa Lucia? Si direbbe di no; piuttosto è grande arte scenica, la quale pur non assumendo una dimensione letteraria diventa poetica, poiché rimane reale e umana. Vito Pandolfi ha identificato la produzione di quegli anni come la terza maniera di Viviani, cioè quella più propriamente realistica; eppure pare che quel realismo spaventi il regista e parte degli attori. Non stiamo parlando del realismo di Di Giacomo, né quello di De Roberto, o del primo Pirandello; magari, inconsapevolmente, Viviani anticipa il cinema di Vittorio De Sica, di Roberto Rossellini.
L’allestimento di Claudio Di Palma, che abbiamo potuto apprezzare l’estate scorsa al «Benevento Città Spettacolo», escogita l’abile soluzione di nascondere i musicisti dietro lunghi veli, quasi ad ampliarne ancora di più l’isolamento e il distacco dalla realtà, “che si sente ma non si vede” (come dice egli stesso nelle note di regia), intuizione elegante da un punto di vista formale, eppure le “voci” di Viviani non sono una metaforica dimensione umana, i “suoni” di Viviani non sono echi o fantasmi, non rappresentano la proiezione di una coscienza foss’anche quella della stessa città di Napoli agonizzante o tumefatta: sono vivi! Sono veri! Sono crudeli, cinici e sgradevoli. L’ostricaro, scrive Viviani nelle sue didascalie al testo, è un «rozzo tipaccio del luogo sui quarant’anni» (indimenticabile Lino Mattera). Ernesto Grossi dichiarava nel 1955 su la rivista “Il Dramma” che l’effetto comico può raggiungersi per tutte le vie, persino con la rappresentazione della morte, ma far ridere con la rappresentazione della cecità, delle tenebre davanti agli occhi, bisogna essere artisti tre volte; bisogna dominare la scena, il testo e lo spettacolo, con l’autorità di Viviani. Ecco quello che manca in questa edizione della musica dei ciechi, manca il dominio di queste tre caratteristiche; vi è una buona recitazione, vi sono buone luci, vi sono buone scene, vi sono buone esecuzioni musicali, vi sono buoni costumi, eppure non si dominano l’uno con l’altro, finanche il proseguimento musicale, un’evocazione già affrontata negli anni ‘70 Roberto De Simone e Antonio Ghirelli con Io, Raffaele Viviani e che Nino Rota recensì come un aver voluto servire Viviani su un piatto d’argento, allontanandolo dallo sciocco paragone brechtiano, dove erano dominati e dominanti quei rapporti di frequenza del sistema tonale tra gli intervalli di seconda, di settima maggiore, di settima minore e tutti quelli eccedenti e diminuiti detti “dissonanze”.
Una particolare menzione la riserviamo a Patrizio Trampetti, impegnato nel ruolo di Don Alfonso, il quale attiva una magistrale dimensione di astrazione, quasi una levitazione sulla scena, forse a volersene sentire un “medium”, uno che sta un po’ di qua e un po’ di là dalla cecità: egli vede solo da un occhio, è cieco a metà, o vede a metà, fa lo stesso, egli riesce a collocarsi in una dominata dimensione scenica che rende il personaggio di Don Alfonso veramente umano e credibilmente cieco, con un proprio dramma misterioso e nascosto per tutta la durata della rappresentazione.
Al teatro Mercadante di Napoli dal 26 dicembre al 9 gennaio