Teatro

Living Theatre e Odin Teatret, nella narrazione di Piergiorgio Giacchè a Perugia

Living Theatre e Odin Teatret, nella narrazione di Piergiorgio Giacchè a Perugia

Nato nel 1985, il Teatro di Sacco si occupa di produzione e formazione teatrale in uno spazio teatrale nel centro di Perugia, la sala Cutu, con proposte sperimentali e spesso innovative: parallelamente alla stagione ufficiale, il Teatro di Sacco ha organizzato alcuni incontri definiti Effetti Collaterali, in cui artisti, docenti ed operatori culturali offrono il racconto del loro spettacolo o del loro autore più significativo. Il 18 dicembre, l’Antropologo teatrale Piergiorgio Giacchè ci ha raccontato la sua versione del Living Theatre e dell’Odin Teatret, fornendo numerosi spunti di vita vissuta, prima ancora che teorici e didattici, essendo stato un protagonista partecipante in prima persona alle due realtà. Nel diario di Julian Beck c’è anche un frammento scritto proprio a Perugia, dove il Living rimase più di quindici giorni, da prendere come spunto per un racconto rivelatosi originale e narrato con emozionanti riflessi reminiscenti che assolvono, ad un livello ulteriore, ad una funzione mnemonica che contribuisce al senso stesso di ciò che verrà raccontato del Living e dell’Odin.

La storia ricordata da Giacchè è quella di un periodo in cui si avvertiva la paura di una rivoluzione il cui fronte sessuale era ancora più importante di quello politico, e dalla quale i giovani si sentivano attratti anzitutto per l’azzardo interiore; il Living “si ingrossava camminando, la gente si aggregava via via nei paesi in cui passava, finché è scomparso così come era apparso. [...] Tornò in Italia nel 1977, ma non c’era Rufus (Collins, n.d.r.) ed era tutto diverso, perché oltretutto anche gli spettatori invecchiano, davanti ad una enfasi che oggi sembra eccessiva, se non fosse che è semplicemente incomprensibile”. Il Living insomma era una manifestazione che doveva far parte di una più grande Rivoluzione culturale, ma l'aspetto realmente drammatico fu che anche lo spettatore, doveva farne parte.

"Grazie all’Odin invece ho imparato il lavoro: chi lo vedeva doveva per forza viverlo, e grazie all’Odin si è capito che il Living era un lavoro e non una manifestazione, una Pasqua piuttosto che una Epifania. [...] Si dice che prima deve venire poi la passione, e poi il lavoro, quindi nasce l’eccellenza: la realtà è che invece solo qualche livello di alta professionalità tocca la passione, e non il contrario.” L’Odin teatret va in giro di gruppo in gruppo, come un arcipelago in cui Eugenio Barba vedeva muoversi “l’ammiraglia dell’Odin, l’isola galleggiante fra la terraferma dove opera e l’isola in cui si ritrova ed effettua la sua sfibrante ricerca del Teatro”. Era un gruppo di persone “bocciate dall’Accademia, e non erano avanguardia, ma retroguardia, anzi il Castello di una Retroguardia che ha il compito di resistere e proteggere la fuga, cercando di salvare la differenza del teatro, sigillare l’autonomia che serve a dare corpo alla differenza dai mass-media, mantenere la presenza in carne ed ossa e la relazione con il pubblico, difendere l’alterità.

E proprio quest’anno, il 22 giugno si è celebrato una sorta di funerale dell’Odin, che nonostante il suo diremmo ottimo stato di salute ha messo in scena il suo seppellimento nel parco Lystanlaeg di Holstebro in Danimarca, città in cui è stata fondata la Compagnia, tra una grande prato ed un lago con la zattera-emblema dell’Odin. Cinquecento fedelissimi con non meno di 25 anni di conoscenza con il gruppo (le isole dell’arcipelago, appunto, dai brasiliani Yins Piracao e Ilè Omolù agli italiani La Casa di Pulcinella e Teatro Potlach, dai balinesi Seni Tri Suari agli indiani Parvathy Baul), hanno assistito ad un intreccio performativo in cui si sono manifestati echi dei loro lavori storici (Ornitofilene, Kaspariana, il Libro delle danze, il Milione, Min Far Hus, Mitos, Il Vangelo di Oxyrincus, Come! And the day will be ours, Le ceneri di Brecht...), finché durante il secondo movimento (Clear Enigma), i 50 anni della Compagnia si sono risolti nella autoproduzione della propria tomba, con gli attori vestiti con i loro abiti antichi indossati negli anni (compresi i pigiami del finale de Il sogno di Andersen, penultimo loro spettacolo), sopra una montagna franosa che sbriciolava insieme a costumi ed arredi, mentre piccoli danzatori balinesi mettevano i resti su un nastro che li gettava in una buca, coperta poi dalla terra e sormontata successivamente da altalene sulle quali giocavano i bambini: il sogno di quella rigenerazione che per Barba era pedagogico, tendeva a ricominciare la tradizione, al contrario di quello prettamente politico del Living.

Pur trovando una continuità nelle fasi storiche ed artistiche, la differenza fondamentale forse allora risiede nella circostanza che l’avanguardia rivoluzionaria del Living voleva fare del teatro un’alternativa e cambiare il mondo, mentre il rivoltoso Odin voleva salvare il teatro con uno slogan che sarebbe potuto essere “siamo in glaciazione, salviamo i licheni!”, rimanendo entrambi nel chiaro spazio dell’utopia, quella destinata a pensare con la memoria del futuro.