Carlo Repetti lascia il Teatro. Il verbo lasciare offre sempre una sensazione di tristezza. Per chi ti conosce. Chi non ti conosce "prende atto" e va avanti spavaldamente.
É una mutazione, ma per una città come Genova, dai tempi lunghi, il cambiamento è vissuto prevalentemente con un senso mai allegro. Per niente facilitante a un progresso reale senza code conservatrici. Inutile la classica frase: "lascio posto ai giovani".
Genova è come lo Stato: si tiene volentieri nei ruoli istituzionali chi c'è, sino alla morte. E anche dopo. Come se il detto: " partire è un po' morire " l'avesse pronunciato per prima questa città con i suoi bastimenti, due Stazioni e un Aeroporto.
Qui c'è ancora Ivo Chiesa, l'immagine, il rimpianto detto a mezzi denti, il modo di camminare, la forza di una coerenza storica e politica: nacque socialista e lo restò persino quando conveniente non era. Senza vantarsi procedeva ritto in una marcia culturale lenta per solidità.
Carlo lo vidi nel suo ufficio, io ventenne di quasi una decina d'anni più piccola, mi sembrò un uomo già adulto, vestito classicamente e con occhiali da soggezione; del ragazzo aveva perso ogni connotato. Era preciso, ubbidiente, fedele. Sorridente con giudizio. Mai artista. Eppure....
Mi colpirono un po' di tempo fa, in un'intervista a Carlo, come sempre i dettagli. Nei dettagli stanno rintanati molti punti fermi dell'esistenza di ognuno. Sbucò la rivelazione riguardo la sua scusa più usata: " sono fuori Genova " . Ecco il cittadino onorario di Cabella nato in via Nizza nel capoluogo ligure non ci ha detto: " vado fuori Genova " quindi niente ritorni, questa non è la sua piccola scusa gentile nel suo tono consueto.
Non lo voglio intervistare, semmai ricordare nella mutazione degli anni. Non saprei cosa chiedergli e troppe domande sono state fatte al mondo per dovere, per mestiere, per opportunismo. A me piacciono i racconti che si disvelano.
Noi piccoli futuri attori guardavamo uscire le " figure aziendali " dai portoni del potere del Teatro e li osservavamo un po' con il rispetto dei capi, un po' con l'irriverenza rivoluzionaria che covava in ognuno, ricco più dei ricchi di una Storia che non ci bastava e che debordanti di nuove idee non stavamo mai a cuccia. Ne studiavamo anche i gesti e le camminate. Insospettabilmente non visti.
Erano gli anni '70 in cui il mondo fioriva di arte, poesia, parole, luoghi che rompevano qualsiasi schema, che urlavano il concettuale, che vomitavano il realismo e il classicismo, e Genova si destava ogni giorno con un teatro nuovo, decine di teatri che nascevano, grazie ad una burocrazia meno stringente, in sottoscala, cantine, buchi.
D'altra parte, erano anche gli anni in cui la Scuola dello Stabile, intelligente e forte quanto oggi, veniva riconosciuta nazionalmente, percepiva sovvenzioni ma non aveva una sede se non una Saletta di 3metri per 4 in Piazza Marsala. Tutto lì. E si provava anche all'aperto guardando le camminate, gli occhi vaghi e quelli veri. Si diventava così esperti nelle maschere e nelle categorie. E ci pareva strano l'allora ragazzo Repetti sempre ligio e sempre al fianco di Chiesa. Sempre vestito bene che giocava un gioco esterno alla creatività.
Lui era poco più grande di noi, ma già fuori da ogni possibilità oltre le righe dell'istituzione.
A Chiesa si dava del tu, a Repetti del lei.
Aveva un peso che noi ragazzi quasi di strada facevamo fatica ad individuare come unità di misura di una coscienza che non voleva scardinare con la forza dei 20 anni, ma precedere la sua maturità per capire, invece, i cardini dei sistemi.
Perché il teatro è un sistema ed è pieno zeppo di rigore. Eppure....
Carlo poi, da semplice assistente, diventò sempre più elemento portante per lo Stabile di Genova, sino ad arrivare alla gestione, nel binomio Repetti - Sciaccaluga.
Un binomio molto rigoroso, matematico, solido che possa reggere la spina dorsale di un Teatro che tutto attorno agli Stabili esige nuove espressioni e che negli Stabili non può muovere troppo i suoi toni, permettersi di abbandonare la sua voce impostata né non vedere più sedute anche schiere di stoccafissi usciti da parrucchieri.
Repetti se ne va e questo per me non è indicativo di una svolta. Magari è anche che per ruoli istituzionali ci si è strutturati globalmente in concorsi. Insomma non si sa quale via percorrerà nelle sue scelte e proposte uno dei quattro Teatri più forti d'Italia. Ma perché Repetti lascia a 67 quando Berlusconi ci dice da decenni che moriremo a 120 anni? Intanto, perché Carlo berlusconiano non credo potrà mai esserlo, e poi perché altre tracce lo svelano.
Sempre in un'intervista lessi sentiti apprezzamenti al sindaco Marta Vincenzi. Un’ulteriore dimostrazione di raffinatezza intellettuale superiore al suo apparente aplomb, al suo apparente stile pratico e che poco pare esporsi. Eppure….
Poi devo dire, lessi anche un commento sulla drammaturgia ( mica si deve ricordare solo il bello ) dove dichiarava l'assenza di nuovi autori in Italia. Certo in uno Stabile molti nuovi autori non trovano casa. Io credo ci siano, ma una rigida burocrazia, uno stretto legame con il passato, una non reale voglia di sperimentazione, una fiducia riposta semmai frequentemente all'estero, poco tempo, se non pochi soldi per una ricerca e infine l'allevamento di un pubblico non ben disposto al nuovo, si mischiano in una ricetta che non apre orizzonti d'azzardo. Ma uno Stabile si chiama così e non si può permettere azzardi ma certezze.
Un giorno però una sorpresa: un libro: " Insolita storia di una vita normale ".
Lo compro lo leggo e appunto mi sorprendo. Come se quel ragazzo che ha sempre affiancato un altro uomo stesse facendo da tempo una cosa. Ma cosa?
Ecco cosa faceva quando noi non capivamo. Cosa ha sempre fatto: stava scrivendo, segretamente, nella sua mente.
Perché il suo punto di arte sta lì. Nel romanzo. E la sua vita del dire è cresciuta attraverso parole poetiche sui palchi, parole di fuoco dietro i palchi, parole di burocrazie protette da finestre dalle luci che si spengevano tardi su calcoli e strategie a indicare a lui i luoghi nascosti in cui risiedono le vite da riportare in pagine in forma di romanzo.
Non glielo chiedo, ma lo so e nessuno mi dica di no o altre banalizzanti parole: Carlo Repetti è un romanziere da sempre. Molti non se ne sono mai accorti. E dopo i 60 anni il tempo è un'incognita Bisogna dare ragione al sogno di cui ci si sente assolutamente padroni per lasciare al mondo una traccia reale che travalichi il semplice ricordo. Che lasci il dire. Chi é artista, anche a sorpresa, lo fa, prima o poi, dopo e persino in fondo, ma lo fa.
Carlo io non sono una tua attrice, non credo neanche una tua spettatrice, no. Ma una tua lettrice, grazie di essere stato sufficientemente muto nella poesia ed efficiente nella pratica, in fondo la Direzione: un atto sociale momentaneo e adesso uno che possa servirci oltre i ricordi ma nelle parole che uscendo da uno scaffale abbiano proprietà di restare per sempre a muovere i cuori anche dopo le chiusure dei sipari e quelle delle menti, delle strutture, della burocrazia, delle botteghe e dei botteghini in ogni epoca ridondanti di provvisorietà, con biglietti, a volte ridotti, per la vita.
Carlo Repetti in sintesi è un uomo del dovere. Vuole darci di più. Ci vuole dare lo scorrere dei sentimenti dentro il suo insospettabile vestito mai stato da ragazzo.
A lui il Teatro cosa avrà dato? La forza del colpo di scena. Della rivelazione.