Londra, Royal Opera House Covent Garden, “Ariadne auf Naxos” di Richard Strauss
ARIANNA AL TERZO PIANO
Ariadne auf Naxos, inizialmente concepita da Hofmannstahl e Strauss come spettacolo ibrido in cui l’opera seria doveva seguire “Il borghese gentiluomo” di Molière, subì una sostanziale revisione e fu preceduta da un prologo musicale originale ed inframmezzata da interventi da opera buffa. Ed è proprio la sottile giustapposizione di comico e tragico, piuttosto che la loro consecutività, a rendere la partitura così interessante: il teatro nel teatro acquisisce ulteriore portata in un gioco di specchi e di echi in cui verità e finzione si riflettono l’una nell’altra.
La Vienna della Secessione giunta al culmine della propria sofisticata civiltà incontra il Settecento classico e gioca con la contaminazione stilistica e musicale, in un piccolo organico strumentale si fondono con virtuosismo belcantismi da opera seria, pastiches mozartiani, prosa, lingua letteraria e dialetto, spunti liederistici e dense enfasi wagneriane.
L’intelligente produzione del Covent Garden di Christof Loy (ripresa da Andrew Sinclair) mette in luce la “profondità in superficie” tipicamente hoffmannstahliana, peraltro favorita dal raffinato impianto scenico di Herbert Murauer particolarmente adatto al gioco metateatrale. All’inizio del prologo sfilano veloci, seguendo il vorticoso incalzare della musica, frettolosi invitati in abito da sera che si precipitano nell’ascensore di un’elegante dimora per non perdersi lo spettacolo organizzato dal ricco padrone di casa e vi s’intrufolano anche scalcinati commedianti in ritardo. Mentre l’ascensore sale e scende il set si alza e la scena viene divisa in due diversi piani visivi e narrativi: in alto un elegante atrio jugendstil dove volteggia fra invitati e poltrone déco un maggiordomo snob, in basso uno squallido scantinato, un backstage al neon dove s’incrociano in perfetta incongruità bulli coatti, una pupa mozzafiato, grassi cantanti dalle ridicole parrucche settecentesche, comparse e un giovane compositore, il più fuori luogo di tutti.
Il prologo costituisce un’efficace caricatura dell’audience e dell’aspetto commerciale che accompagna la creazione artistica, sviluppando il tema del conflitto fra l’integrità dell’arte e l’onnipotenza del denaro. Per l’opera propriamente detta, un’elegante stanza all’ultimo piano ricrea il “set” di un ’isola deserta con boiseries pastello e trompe -l’-oeil di paesaggi greci rivisti con gusto settecentesco alla Watteau. Arianna dorme con il busto rovesciato su di un tavolo da toeletta, assolutamente immobile, mentre per terra cumuli di candele accese e consumate ricordano il tempo dell’abbandono. Echo è un Mozart-fanciullo che esce da un baule, le ninfe sono cameriere premurose e frigide in costante opposizione ai commedianti ipercinetici e nerboruti. Porte scorrevoli decorate con ninfee si chiudono dolcemente per ricreare un décor intimo e notturno, una sala da pranzo blu notte elegantemente apparecchiata che accoglierà un ospite inatteso, Bacco, fra delicati bagliori di stelle e argenti.
L’Ariadne di Deborah Voigt ha voce importante, la linea è salda, splendide le discese nel grave. Inizialmente ha qualche difficoltà a trovare il giusto accento e le asperità nel registro acuto minano i mielismi e le morbidezze straussiane, poi la voce decolla e si espande con voluttà nel duetto finale, un flusso di suono estatico e infinito. Primadonna ridicola e capricciosa nel prologo, diventa nell’opera una vera diva, o forse solo sé stessa , cantante del Met con qualche chilo di troppo, collana di perle e perfetta messinpiega.
Gillian Keith è una soubrette perfetta, una Zerbinetta davvero bella, snella e flessuosa. La voce non è molto corposa, ma dopo un prologo un po’ anonimo guadagna in caratterizzazione e anche le colorature sono agili e in sintonia con il passo leggero. Per Hoffmanstahl l’opera funziona per opposizioni, la donna che ha amato una volta sola e quella dai tanti amori, amore ideale e amore terreno che alla fine si specchiano quando Zerbinetta, sedotta e “scaricata” da Arlecchino, si mette tristemente al lato della scena come un’ Arianna abbandonata, mentre quest’ultima si abbandona a una nuova estasi amorosa.
Intensa e languida Janice Jepson nel ruolo del Compositore, capace di reggere con voce piena le grandi arcate straussiane, espressione degli slanci ingenui e deliranti del giovane artista.
Nell’ingrata parte di Bacchus Richard Margison se la cava senza brillare, facendo buona parodia del tenore eroico di derivazione wagneriana.
Davvero perfetto Alexander Pereira, direttore dell’Opera di Zurigo, voce recitante che dà giusto aplomb e cinismo al gelido Maggiordomo, il “doppio “ del ricco padrone .
Marcus Werba è un macho –Arlecchino che intona il Lied con grande gusto per musica e parola e che spicca per eccellente vocalità.
Thomas Allen è un Maestro di musica incisivo; divertente e ironico il Maestro di danza di Alan Oke.
La brillante direzione di Mark Elder non mette in rilievo tutte le finezze della strumentazione, ma è molto teatrale e caratterizzata da una dinamica vibrante che lega le situazioni con verve e continuità senza cadute melliflue. Il direttore ottiene dall’organico ridotto suggestive cascate di suono e una trama sontuosa e variegata, anche se talvolta un po’ gonfiata e che non lascia trasparire tutta la malinconia che pervade in filigrana la partitura.
Un pubblico giovane e coinvolto ha apprezzato lo spettacolo divertente e raffinato in assoluta sintonia con l’essenza dell’opera.
Visto a Londra, Royal Opera House Covent Garden, il 21 giugno 2008
ILARIA BELLINI
Teatro