Renée Fleming dà l'addio al ruolo della Marescialla con questa produzione in scena ora a Londra e in aprile a New York raggiungendo risultati inarrivabili. Delude la direzione d'orchestra, poco originale la regia di Carsen in scene monumentali.
Londra, Royal Oper House Covent Garden, “Der Rosenkavalier” di Richard Strauss
La Marescialla degli addii
Il motivo d’interesse della nuova produzione di Rosenkavalier in scena a Londra al Covent Garden (e prossimamente a New York ad aprile), più che nella regia o nella direzione musicale, risiede nell’addio di Renée Fleming alla Marescialla, ruolo con cui ha raggiunto vertici artistici difficilmente eguagliabili. Riteniamo giusto iniziare quindi questa cronaca proprio da lei, assoluta protagonista della serata di addio a Londra nel ruolo.
Renée Fleming “è” per la classe innata, il fascino e la radiosa bellezza, la perfetta incarnazione della Marschallin dei nostri tempi, la sua statura scenica è tale che, scusate il paradosso, potrebbe quasi permettersi di non cantare e funzionerebbe lo stesso. Con un minimo gesto o mutare dello sguardo (bellissimo come si rabbuia o si rischiara l’occhio azzurrino al mutare della situazione drammatica) comunica tutta la complessità di una bella donna consapevole del proprio fascino ma anche del tempo che passa. Si abbandona ad amplessi focosi scostando ad arte la sottoveste di seta che ne valorizza le gambe e il decolleté ma infila poi con malcelata tristezza le mani nei guanti per nascondere, soprattutto a sé stessa, i segni del tempo. A Londra all’addio della Marescialla (nella finzione) a un amore corrisponde nella realtà a un importante commiato artistico: teatro e vita, in modo molto “straussiano”, si corrispondono e ne deriva una commozione ulteriore. Come la Marescialla è una donna ancora desiderabile, la Fleming è sempre nel pieno della forma vocale: la voce è sempre bellissima e perfettamente emessa e proprio per questo tale addio è ancora più struggente e applaudiamo l’intelligenza dell’artista di lasciare al momento giusto, quando si è ancora all’apice: non è questa la lezione della Marschallin? La sua interpretazione è superba, più approfondita e interiorizzata rispetto al passato, più rifinita nell’inflessione tedesca. La voce è piena in tutti i registri, perfettamente modulata sulla difficile frase straussiana e ai noti “miele e velluto” si aggiungono malinconici riflessi argentei. La Fleming (favorita dalla direzione) usa la voce in modo accorto e solo in rari momenti (come nell’aria finale del terzo atto) si percepisce come il cristallo sia a un passo dall’incrinarsi. Ma per fortuna non avviene.
Non allo stesso livello il resto del cast (ma per noi, a dispetto del titolo, è la Marescialla, non il Cavaliere della Rosa, il protagonista). Alice Coote, beniamina del pubblico londinese e anche in questa occasione applauditissima, ha dato di Octavian un’interpretazione riduttiva, giocando più sulla “mascolinità” del ruolo en travesti anziché puntare sulla sua sensibilità e ambiguità; il registro acuto è sicuro ma quello grave non ha il giusto appoggio e certe pagine, anziché essere cesellate, risultano banalizzate da un canto che privilegia il “forte” all’introspezione. Da seguire la Sophie di Sophie Bevan per la voce piena di bel timbro scuro, una Sophie decisamente “ borghese” e decisa, più terrena e sensuale del solito che funziona in contrapposizione alla Marschallin. Matthew Rose è una presenza abituale sul palcoscenico londinese e il suo Barone Ochs di gusto moderno e cantato con eleganza diverte senza scadere nel becero (anche se è rozzo ci piace perché giovane e vivace). Ben risolti i due intriganti Valzacchi, Wolfgang Ablinger Sperracke e Angela Smikin. Piuttosto anonimo invece il Faninal di Jochen Schmeckenberger. Il tenore italiano è Giorgio Berrugi che, vestito di bianco con un panama in testa e un 78 giri in mano, rende con bella voce omaggio a Caruso.
Non convince, a partire dalle prime battute troppo forti ed esibite, assai lontane dalle insinuanti e struggenti articolazioni straussiane, la direzione di Andris Nelsons che non fa trasparire quella particolare atmosfera “viennese” che è la cifra del Rosenkavalier, in cui ironia, leggerezza e dolceamara malinconia in equilibrio convivono. Inoltre nell’accompagnare i cantanti si percepisce una dicotomia evidente: mentre è attento alle ragioni del canto quando canta la Fleming e l’orchestra disegna una trama leggera che lascia voce e parola protagoniste, cura meno sonorità e spessori nelle scene d’insieme e, nell’accompagnamento di Octavian e Sophie, indulge a un forte che attenua la portata emozionale e introspettiva.
Abbiamo spesso lodato il genio di Robert Carsen ma stavolta la produzione, peraltro sontuosa e come sempre molto curata dal punto di vista estetico, risulta poco originale e si ritrovano delle soluzioni già utilizzate dal regista canadese. Ai fini dello sviluppo della vicenda l’aver ambientato l’opera poco prima della prima guerra mondiale ci può stare, ma non è rilevante, e il fatto che Ochs sia un soldato prussiano o Faninal un trafficante d’armi non aggiunge nulla ai caratteri, semmai li banalizza.
Le scene di Paul Steinberg ricreano con gusto i sontuosi gli appartamenti della Marschallin, una citazione dell’Hofburg o dell’Albertina, dalle pareti rivestite di damasco rosso e quadri importanti con un grande letto capitonné che domina l’ambiente. Come in altri allestimenti di Carsen il palazzo viene suggerito da una serie di stanze, una dentro l’altra, definite da porte concentriche che si aprono e chiudono e che generano, oltre alla profondità di campo, una riuscita mise en abyme. Più minimale la casa del borghese Faninal, giocata sul bianco e nero di pavimenti e arredi di tocco jugendstil e le pareti ornate da un fregio greco, ma appaiono fuori luogo i due giganteschi cannoni che troneggiano al centro della stanza e intorno ai quali si “accende” il sentimento fra Octavian e Sophie. Se in certe situazioni, come nel primo atto, è il libretto a richiedere un grande dispiegamento di masse e comparse e Carsen è bravissimo nel muovere con giusta ironia servitori, cani e postulanti, risultano di troppo le coppie di ballerini che accompagnano a passi di valzer la consegna della rosa da parte di Octavian e non bastano le luci a isolarli, per cui la magia del momento sparisce. La scena è sempre molto affollata e il terzo atto ambientato in un bordello non fa eccezione. L’idea di avere trasformato l’albergo in una casa chiusa frequentata dalla società viennese del tempo può funzionare ma risultano di troppo gli incubi a luce rossa di Ochs, ovvero le donne in vetrina che appaiono e scompaiono in nicchie illuminate a intermittenza. Come sempre “ less is more” e il momento più alto è il finale quando Octavian, Sophie e la Marescialla, rimasti nella stanza vuota, disegnano un triangolo nello spazio salvo poi scambiarsi di posizione nel corso del terzetto per alludere a una nuova geometria amorosa. L’opera avrebbe dovuto chiudersi con questa atmosfera rarefatta ma irrompono da una cortina di fumo rumorosi soldati e il dolceamaro “ja, ja ..“ di commiato della Marschallin passa, purtroppo, in secondo piano.
Visto a Londra, Royal Opera House Covent Garden, il 14 gennaio 2017