Affrontare un personaggio storico controverso ed intrigante come quello di Lucrezia Borgia, non fu certamente semplice per Victor Hugo. Figura emblematica del nostro Rinascimento, la figlia illegittina di Papa Alessandro VI rimane stagliata nella memoria comune per un tetro lascito di congiure ed avvelenamenti. Anche se, storicamente, concluse una esistenza turbolenta in maniera irreprensibile: divenuta accorta amministratrice dei beni dell’ultimo marito, aveva aderito all’Ordine Terziario Francescano indossando il cilicio e legandosi ai seguaci di Santa Caterina e di San Bernardino da Siena, e per soccorrere la povera gente aveva fondato il Monte di Pietà ferrarese. Tutto questo, prima di morire di parto a soli 39 anni.
L’escamotage adottato dal grande scrittore francese - e la sua carta vincente - fu quello di puntare in “Lucrèce Borgia”, primo suo lavoro non in versi, su di un tema, quello dell’amor filiale, da sempre di presa sicura sullo spettatore, specie se pronto ad inumidire il ciglio con una lacrima facile. Lo stesso tema che ritroviamo poi ovviamente tramigrato, seppure con inevitabili sfrondature (e modificando il scioglimento finale che prevedeva la morte della duchessa di Ferrara per mano del figlio, cosa inconcepibile per l’occhiuta censura d’allora) nell’agile libretto di Felice Romani: che tratta pure lui il tenero legame di Lucrezia verso un figlio segreto avuto a Napoli, Gennaro, al quale essa non si vuole rivelare; né le pare il caso di svelarne l’esistenza ad Alfonso d’Este - terzo suo sposo dopo Giovanni Sforza ed Alfonso d’Aragona – a costo di farlo credere un pericoloso rivale. Ma l’invincibile inclinazione alla vendetta ed al delitto fa sì che Lucrezia involontariamente causi la morte di Gennaro, avvelenandolo insieme al drappello dei suoi compagni che l’avevano gravemente offesa.
La realizzazione della “Lucrezia” di Romani e Donizetti segue a ruota quella originale - entrambe apparvero infatti nel 1833, la prima in gennaio a Parigi, la seconda a dicembre, alla Scala di Milano - e rappresenta un perfetto esempio di quella stretta connessione tra teatro di prosa e teatro di musica che vedeva il secondo genere - esaurite le schiere composte da dei, semidei ed eroi dell’opera sei-settecentesca - attingere a piene mani al primo, che con argomenti di gusto pienamente romantico conquistava le platee di tutta Europa. Insieme all’uso di fonti romanzesche, per ogni operista era l’altro modo di andare incontro ai gusti del popolo e della classe media borghese che frequentavano le sale, e che costituivano la più parte della massa degli spettatori dei teatri d’allora. Il tema dell’amore materno, per Hugo e per Romani ha un ruolo dunque assolutamente centrale e riempie ogni momento del racconto tranne che nella scena del banchetto in Palazzo Negroni: per Donizetti, una preziosa occasione di portare un po’ di luce in un’opera invero alquanto tetra e monodirezionale, rallegrandoci con i brindisi spensierati della scapestrata brigata capeggiata da Maffio Orsini. Musicalmente, “Lucrezia Borgia” è un’opera per molti versi innovativa, anche se il suo finale, frutto dei capricci della prima protagonista - il grande soprano Henriette Méric-Lalande - è ancora una volta un tradizionalissimo rondò, il solito acrobatico ‘a solo’ di gusto rossiniano che in questo tragico epilogo, a dire il vero, appare un tantino fuori posto. E’ lo scotto che Donizetti dovette pagare all’interprete che proprio questo titolo aveva fortemente voluto, alla prima donna assoluta della stagione meneghina. Qualche calo di tensione nel tessuto generale trova piena giustificazione poi nella circostanza che il bergamasco ebbe in mano il libretto all’ultimo, cioè dopo che Mercadante, primo destinatario delle commissione scaligera, si era improvvisamente defilato; e che quindi si trovò ad agire in fretta per arrivare in tempo all’inaugurazione della stagione di carnevale. Accolta alla Scala in maniera incerta, il 26 dicembre 1833, pur avendo una protagonista di tutto riguardo, ebbe comunque un buon numero di repliche; per un triennio parve cadere nel dimenticatoio, risorgendo inaspettatamente con un trionfo inequivocabile nell’ottobre 1836 alla Pergola di Firenze grazie anche alla bravissima Luigia Boccabadati, ed è rimasta da allora saldamente presente in tutte le sale europee sino a fine secolo. Senza mai sparire del tutto dai teatri, con la Donizetti-Renaissance “Lucrezia Borgia” è rientrata oramai, saldamente e definitivamente, nel repertorio lirico internazionale, contando anche sulle interpretazioni memorabili della Gencer, della Caballé, della Sutherland.
Posto che è tutto imperniato sulla figura drammaturgicamente multiforme di Lucrezia, serve dunque per questo lavoro una protagonista solida ed esperta, con una forte carica drammatica che deve esprimersi nella presenza e nella voce. Chiedere questo ad una giovanissima esordiente, seppure sicura di sé e bravissima nei tratti d’agilità quale Francesca Dotto, mi è parso da parte del Teatro Verdi di Padova un tantino temerario. Il soprano trevigiano ha poco più di vent’anni, ma mostra già un notevole temperamento, salda preparazione musicale ed una voce interessante nel colore, chiara e delicata; dunque, si intuisce già una convincente Mimì, o una bella Violetta e quant’altro, ruoli di giovani e trepidanti innamorate. Ma non mi appare ancora matura per un ruolo complesso e scabroso come questo, dove serve sì un fraseggio elegante e una coloratura raffinata – e qui si saremmo già – ma anche un certo spessore sonoro, ed una maturità vocale che è ancora di là da venire. Ma noi abbiamo pazienza, e fiducia negli sviluppi d’una promettente carriera.
Altra esordiente era il giovane mezzosoprano campano Teresa Iervolino, che nel ruolo meno problematico di Maffio Orsini si è comportata benissimo, esibendo vocalità ragguardevole e bella disinvoltura; Paolo Fanale era un non memorabile Gennaro, frammentario nella condotta e povero di volume e di eleganza; Mirco Palazzi ha tratteggiato un buon Alfonso, corrusco e volitivo. Bene nell’insieme la schiera dei comprimari formata da Vittorio Zambon (Jeppo), William Corrò (Gazella), Gabriele Nani (Ascanio), Orfeo Zanetti (Vitellozzo), Andrea Zaupa (Gubetta), Matteo Mazzaro (Rustighello) e Massimiliano Catellani (Astolfo). Così così il Coro Città di Padova, diretto da Dino Zambello.
L’Orchestra di Padova e del Veneto, non sempre adamantina nella sezione fiati, era diretta da Tiziano Severini: bella l’atmosfera evocata, cupamente notturna e fosca nel colore, intelligente lo stacco dei tempi, senza ossessioni metronomiche, molta attenzione profusa nel seguire i cantanti; e poi molta accortezza sul versante strumentale, con una guida capace di esaltare bene ogni dettaglio.
Giulio Ciabatti, operando in una scenografia molto elementare di Roberta Volpe– in pratica, una serie di altissime colonne grigie e rosse – ha costruito una regia lineare, che seguiva pari pari il procedere del libretto. Unico neo, la scena era talora riempita di inutili comparse messe lì solo a far da belle statuine. Molto raffinati i costumi di Lorena Marin, di pretto sapore rinascimentale, che con la loro rutilante presenza controbilanciavano una scena altrimenti spoglia. Le luci erano di Bruno Ciulli.
La sala del Teatro Verdi non si era del tutto riempita per questa interessante apertura della Stagione Lirica 2013, segno che certa gente diffida ancora dei titoli meno conosciuti, anche se validissimi. Ha assolutamente torto, ma vai a convincerla del contrario! Nondimeno, il pubblico presente ha tributato caldi applausi ad una compagnia valida e formata in prevalenza da giovani interpreti, ed al suo ottimo direttore.
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