Aveva ragione Britten, od avevano ragione le rivoluzionarie avanguardie sperimentali del Novecento? Aveva ragione chi non voleva rinnegare del tutto l’eredità del passato, o chi voleva fare ‘tabula rasa’ di tutto quanto gli stava dietro? Se uno Stravinskij nel suo percorso artistico compì un cammino a 180°, passando da intenti rivoluzionari - proprio quest’anno ricorre il centenario della sovversiva “Sacre du Printemps” - a posizioni abbastanza reazionarie, adeguandosi alla classica metafora del nascere incendiario e morire pompiere, il più giovane Benjamin Britten procedette sempre in maniera lineare adottando uno stile che, pur non restando indifferente alle novità, deteneva un saldo legame con certa tradizione, a tal punto convinto della validità del melodramma – da lui definito «la più affascinante di tutte le forme musicali» - da utilizzare ben volentieri tale medium espressivo considerato antistorico e superato da tanti suoi colleghi. Restò dunque affezionato a tale plurisecolare e gloriosa formula espressiva, però a modo suo: utilizzando cioè un sistema tonale declinato in guizzi coloristici inediti, le usuali forme chiuse rivissute però in maniera originale, e strumentazioni classiche ripensate sempre in chiave attuale e moderna.
Come commenta Lidia Bramanti, «Britten insinua il “nuovo” in spiragli espressivi, non in gesti di palese cambiamento, anticipando quindi una visione più duttile dell’arte e della scienza rispetto alle tesi del primo Novecento…La sua estetica è molto lontana dalla concezione positivista che vede il pensiero umano evolversi lungo un percorso le cui tappe devono per forza essere scandite, ogni volte, da un azzeramento dei codici e delle convenzioni linguistiche precedenti ».
Per il maggior compositore inglese del Novecento il decennio susseguente alla fine della Seconda Guerra fu fertilissimo: alla fulminante apparizione al Festival di Glyndebourne di “Peter Grimes” (1945), seguirono poi in rapida sequenza “The Rape of Lucretia” (1946), “Albert Herring” (1947), “Let’s Make an Opera” (1949), “Billy Budd” (1951), “Gloriana” (1953), per giungere infine a “The Turn of the Screw” (1954). Quasi tutto il maggior teatro del grande compositore di Lowestoft è compreso in questo elenco, restando fuori solo lo Shakespeare di “A midsummer Night’s Dream” del 1960, e la tarda e crepuscolare “Death in Venice” del 1973.
Tipico poi di Britten è il frequente uso di un’orchestra ridotta ai minimi termini, scarna ed essenziale: scelta motivata sì dall’esigenza di ridurre al minimo i costi di allestimento - come nel caso di “The Rape of Lucretia” - ma che nel contempo induce l’utilizzatore a compiere prodigi tecnici e timbrici, sbrigliando la fantasia per ottenere più combinazione ed effetti possibili con un minimo dispiego di mezzi. Nove fiati, un quintetto d’archi, arpa, piano e percussioni: da un minimo di dodici pluristrumentisti – il piano dovrebbe essere suonato nei recitativi dal direttore - ad un massimo di sedici esecutori: come nel caso della vigorosa compagine cameristica messa in campo dal Teatro Verdi, e posta sotto la nitida ed espressiva guida musicale del giovane direttore giapponese Ryuichiro Sonoda: irreprensibili gli effetti di chiaroscuro, le combinazioni timbriche, e le dinamiche: E decisamente encomiabile tutto l’equilibrio generale da lui conseguito in questa poco frequentata partitura britteniana.
Questa nuova versione di “The Rape of Lucretia”, perfetto esempio di opera da camera, nasce da una coproduzione che ha visto coinvolti il Teatro Nazionale Croato di Spalato, che ne ha curato l’allestimento e dove ha visto la luce un anno fa, nonché la Fundación Cultural Artemus di Madrid ed appunto il Verdi di Trieste; un progetto dallo spirito europeistico di ampio respiro, affidato alla regia del giovane regista e scenografo Nanad Glavan. Croato di nascita, ma formatosi e laureatosi a Roma, Glavan ha collocato una vicenda d’origine tra mito e storia, ma che nel tempo si è intrisa di un’etica filosofica cristiana (la fedeltà violata dal peccato) in uno spazio neutro, delimitato da spirali concentriche e gradienti: nelle sue intenzioni, una via di mezzo tra un anfiteatro ed un’aula di tribunale, e difatti i due personaggi del Coro si presentano paludati all’inizio come due severi magistrati. Spirali che ruotano con lenti movimenti evocando le spire del potere, il vizioso abbraccio di Tarquinio, le costrizioni delle convenzioni morali; sulla scena soggetti mossi da passioni potenti ed incoercibili, spiati dall’occhio di una fredda webcam che ritrasmette su di un largo lenzuolo, tramandando in maniera confusa le immagini di quanto accade nel semicerchio dell’arena: Lucrezia, consorte fedele ed appassionata di Collatino, subisce di notte la violenza di Tarquinio, principe di Roma, attratto proprio da questa sua virtù. Una violenza che per lui non è solo piacere animalesco, ma anche sinistro esercizio di potere: «Sono io il principe di Roma! E gli occhi di Lucrezia sono il mio impero!», proclama infatti nella notte, prima di mettere in atto il suo turpe disegno. Ed alla fine il doloroso strazio per l’onta subìta da Lucrezia può essere sanato solo con il suicidio tra le braccia del disperato consorte Collatino, che nulla può, né vuole rimproverarle. Una separazione dolorosa ma solo momentanea, commenta nell’epilogo il Coro maschile perché essi, nelle parole del librettista Ronald Duncan «Non hanno nessun bisogno di una vita da vivere; non hanno nessun bisogno di labbra per amare; non hanno bisogno di una morte da morire; nel loro amore tutto si è dissolto, nel loro amore tutto si è risolto…L’amore è il tutto. E’ tutto!».
La compagnia di canto, a parte i ruoli del Coro maschile e femminile – ricoperti dal bravo tenore austriaco Alexander KrÅ‘ner e dall’altrettanto valente soprano polacco Katarzyna Medlarska – appariva di alterno valore: aggraziata la Lucretia di Sandra Galli, suadente ed eterea nel timbro, ma un po’ debole nell’emissione; a tratti grezzi il Tarquinio di Carlo Agostini e il Collatino dello spalatino Marijo Krnić; perfette le due ancelle rese dal mezzosoprano croato Dijana Hilje (Bianca) e dal soprano valenciano Nuria Garcia Arrés (Lucia); discreto il Giunio di Giampiero Ruggeri.
Un piccolo plotone di muscolosi mimi, acrobati più che veri danzatori, dava forma alle non memorabili coreografie di Almira Osmanovi, con movimenti che non sempre mostravano precisa attinenza con quanto stava scritto sul libretto. Cosa strana, perché altrove la concisa regia di Glavan sapeva renderne compiutamente il senso, rendendo lo spettatore intensamente partecipe del dramma, come hanno dimostrato i vividi apprezzamenti tributati agli interpreti. I costumi dal design moderno, eleganti ed adeguati all’assunto generale, si dovevano a Teresa Acone.
Una nota dolente, la sconsolante scarsità di pubblico che ha presenziato alla recita del Venerdì Santo. Ma un Britten, seppure un Britten raramente ascoltabile, non è Verdi né Puccini, si sa.
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