La partitura del compositore napoletano fa dialogare Pergolesi e Bach all'interno di una 'meditazione' sonora complessa e toccante
La prima esecuzione assoluta dello Stabat mater di Roberto De Simone era attesa dal pubblico del Teatro di San Carlo con molta curiosità e con una punta di trepidazione. E ciò non soltanto per il vivo interesse suscitato da ogni nuova creazione del maestro, che il 25 agosto ha festeggiato il suo ottantaduesimo compleanno, ma anche perché la performance era stata originariamente programmata per il 3 aprile e poi cancellata in extremis. Di fronte a quella decisione a dir poco insolita, qualcuno aveva avanzato il dubbio che il rinvio celasse in realtà un definitivo accantonamento del progetto. Per fortuna così non è stato, e il lavoro ha debuttato felicemente nella sua nuova collocazione del 16 settembre.
Lo Stabat mater da Giovanni Sebastiano a Giovanni Battista è fatto di musica al quadrato, anzi al cubo. Com’è noto, lo Stabat mater di Pergolesi (Giovanni Battista) ebbe immediata fortuna e tempestiva diffusione in tutta Europa; tra gli episodi più significativi della sua ricezione, va annoverata la rielaborazione di Bach (Giovanni Sebastiano), che si appropria delle note del collega ormai scomparso e adatta a esse un testo tedesco per ricavare il mottetto a due voci Tilge, Höchster, meine Sünden BWV 1083. Tenendo i piedi ben piantati nell’oggi, De Simone si confronta dialetticamente sia con la pagina napoletana, sia con il successivo adattamento tedesco, ma in più versa nel crogiolo altri ingredienti sonori, soprattutto bachiani, e li sottopone a un incessante, labirintico rimescolio.
Non è facile etichettare un simile processo compositivo, che sfrutta varie tecniche e sottopone il dato musicale preesistente a trattamenti molteplici, dal livello minimo dell’arrangiamento al parossismo della riscrittura, dalla manipolazione straniante dell’armonia alla vertiginosa contaminazione. I fantasmi del passato si manifestano perciò sotto molte forme: sono cellule tematiche liberamente trattate e spesso coinvolte in avvitamenti ossessivi; sono interi numeri mutati nel colore e stravolti dalle superfetazioni; sono spezzoni estrapolati dai contesti d’origine per essere giustapposti o contrapposti.
Alla pluralità delle fonti e alla complessità delle lavorazioni corrisponde l’originalità dell’orchestrazione, che rinuncia agli archi (con l’unica eccezione di una viola da gamba associata al fortepiano per il basso continuo) e accosta entità provenienti da mondi musicali diversi, tra loro fuori scala. L’ensemble strumentale è costituito da ottoni e fisarmoniche con l’aggiunta di marimba, vibrafono e celesta, mentre il versante vocale è popolato da quartetto gospel, coro e coro di voci bianche. Gli elementi appena descritti interagiscono in combinazioni cangianti, così da generare una sapiente alternanza di spessori fonici e di marezzature timbriche, pur all’interno di una sostanziale omogeneità sonora.
Il gioco di specchi condotto sull’asse diacronico della storia e su quello sincronico dei linguaggi fa sì che nulla sia ciò che sembra, ovvero che nulla resti a lungo nello stesso stato: il sassofono canta, le voci ricalcano linee nate strumentali, le fisarmoniche risuonano come organi, l’antico si fa moderno, il presente cannibalizza e rivomita il passato, Pergolesi assomiglia a Bach, Giovanni Sebastiano cospira segretamente con Giovanni Battista... Perfino gli elementi all’apparenza più accessibili (vale a dire i temi pergolesiani, ma anche i materiali contrappuntistici desunti dal primo libro del Clavicembalo ben temperato, dal preludio in do minore BWV 999, dalla Fantasia cromatica e fuga) finiscono per spiazzare l’ascoltatore, che percepisce insieme il profilo primitivo e la sua drammatica lacerazione. La profondità del pensiero musicale si traduce in pagine ardue e talvolta spettrali, come lo splendido ricercare strumentale del Miserere (n. 4), che fa pensare a Gabrieli ma allo stesso tempo è perfettamente contemporaneo nelle impennate nervose e nelle divagazioni repentine. O come l’impressionante finale (Wasche mich doch reint, n. 13), nel quale il Fac ut ardeat pergolesiano viene combinato con la fuga della Fantasia cromatica tradotta per coro.
Non fa concessioni né sconti, questa partitura densissima, che nei suoi tredici numeri scorre lenta, tesa, scura e oscura, intima e severa anche nel clangore del fortissimo. I modi minori dominano quasi sempre nei settanta minuti occupati dall’esecuzione, con l’eccezione del n. 12 (Laß dein Zion), raggio di luce pura che tuttavia giunge troppo tardi, come un rimpianto dolce e vano. Il senso ultimo dell’intera, magistrale operazione di De Simone è infatti la distillazione sonora del dolore. Un dolore assoluto, totale, còlto nella sua manifestazione più acerba: la sofferenza di una madre (di ogni madre, di tutte le madri) di fronte alla morte del proprio figlio. L’eclettismo della composizione, che passa impunemente dal latino di Jacopone al sound afroamericano, non è accumulo caotico e gratuito di tasselli eteronomi, ma strumento per raccontare, con pudore e quasi con distacco, l’universalità di quel dolore, la sua radice indeclinabile, la sua natura metastorica.
Una partitura tanto complessa necessita della dedizione e della convinzione dei suoi interpreti, spesso chiamati a svolgere un ruolo molto diverso da quello loro assegnato nei repertori consueti. Gli artisti che hanno animato la performance sancarliana si sono messi in gioco e hanno accettato senza remore la scommessa lanciata dall’autore, donando al pubblico un’esperienza sorprendente e toccante. Un particolare plauso va alla cantante gospel Cheryl Porter, che ha offerto alla meditazione mariana le vibrazioni della sua voce profonda e brunita. Consensi meritatissimi sono stati riservati al coro di voci bianche del teatro, perfettamente addestrato da Stefania Rinaldi, al quale il compositore ha assegnato interventi numerosi e impegnativi. Bravo Maurizio Agostini, che dal podio è riuscito a salvaguardare la coerenza e la coesione dell’insieme.
Il maestro De Simone, presente in sala, è stato salutato con una calorosa ovazione e ha raggiunto il palco per godere insieme al pubblico della replica dell’ultimo numero del suo Stabat.