Dopo quasi due anni di repliche, e una maggior definizione artistica, la produzione di maggior successo del Teatro Sociale di Pescara, dal titolo “L’uomo-carbone”, diretta da Federica Vicino, è approdata alla Casa del Teatro di L’Aquila, lo scorso 18 marzo.
Il titolo fa riferimento all’accordo italo-belga (riguardante lo scambio di uomini contro carbon fossile) che è all’origine della tragedia di Marcinelle.
L’8 agosto del 1956, fra le 7.30 e le 8.00 del mattino, un’esplosione devastò il pozzo n. 1 della miniera di carbone di Bois du Cazier, a Marcinelle, vicino Charleroi, in Belgio.
262 dei 274 minatori presenti in quel momento persero la vita: 136 di essi erano italiani e, di loro, 60 erano abruzzesi (provenienti prevalentemente da piccoli paesi dell’entroterra pescarese: Manoppello, Turrivalignani, …), emigranti, partiti alla volta del Belgio all’indomani della ratifica dell’”Accordo Uomo – Carbone”.
Nel 1946, l’Europa, appena uscita dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, doveva rimettere in moto l’economia. Il Belgio aveva assoluta necessità di riavviare l’attività estrattiva, uno dei traini del proprio sistema economico: ma era praticamente privo di manodopera a causa delle ingenti perdite di vite umane, causate dalla guerra. Quindi iniziarono le trattative con l’Italia dove, invece, la miseria e la disoccupazione avevano colpito, soprattutto nelle zone del centro-sud, più duramente del conflitto stesso e che era priva delle materie prime indispensabili all’industria metallurgica.
Il primo ministro belga Van Hacker propose al Governo italiano un accordo che prevedeva rapporti di interscambio fra i due Paesi, e la voce più significativa riguardava la possibilità dell’impiego di manodopera italiana nelle miniere. Si doveva trattare di italiani di un’età ancor giovane (35 anni al massimo) e in buono stato di salute. Il Belgio, come contropartita, garantiva all’Italia almeno 2.500 tonnellate di carbone all’anno, ogni 1000 operai inviati.
Il 23 giugno, si arrivò alla firma del Protocollo d’Intesa e Alcide De Gasperi, il quale guidava il Governo di Unità Nazionale, promosse una politica attiva riguardo all’emigrazione.
2000 uomini alla settimana, 50mila italiani in un anno, partirono per andare a lavorare principalmente a Bois Du Cazier, a Marcinelle, vicino Charleroi.
A coloro che facevano domanda di emigrazione veniva comunicato che il protocollo italo-belga prevedeva una base salariale comune per minatori italiani e belgi (e dunque identica retribuzione, per gli uni e per gli altri), oltre che un regolare trattamento pensionistico e sanitario, e il diritto agli assegni familiari, anche per i componenti delle famiglie rimaste in Italia. Non furono rese note, però, ai minatori provenienti dall’Italia, le clausole riguardanti tempi e modalità del loro impiego. E, in particolare:
- la clausola che impediva la rescissione del contratto prima di un anno di lavoro continuativo in miniera, pena la detenzione;
- il mancato rinnovo del passaporto, in caso di rinuncia all’accordo;
- l’impossibilità di cambiare lavoro prima di aver svolto 5 anni continuativi di lavoro in miniera.
Poi, l’08 agosto del 1956, ci fu la tragedia che pose termine all’accordo. Uno dei disastri più terribili della storia del lavoro. Fu una tragedia agghiacciante.
L’allestimento proposto dal Teatro Sociale di Pescara si snoda attorno all’aspetto umano della vicenda. Racconta, con una storia di fantasia, dei giovani che accettarono di trasferirsi, rivelando la semplice, ma non trascurabile, incontrovertibile verità, cioè che i minatori, prima che lavoratori, erano persone, con le loro storie, le loro vite, i loro sentimenti, le loro speranze, le loro paure. E il loro destino.
Il nucleo centrale de “L’uomo-carbone” è incentrato sulla vicenda di due fratelli, Antonio e Sandro (interpretati rispettivamente dai bravi attori Pierfrancesco Leone e Massimo Leone – fratelli anche nella vita reale), partiti alla volta del Belgio, con in tasca la domanda di emigrazione e nel cuore tutti i sogni, le speranze, i rimpianti di due ragazzi qualunque e, soprattutto, il dolore pregresso di aver perso il padre proprio in una miniera di carbone, tragedia che era accompagnata dal diritto di prendere il suo posto nel lavoro. Antonio è pragmatico e realista, sa che forse non ne uscirà più e tenta di spiegarlo al fratello, appoggiato anche dagli altri minatori. Sandro, invece, è più fiducioso e ingenuo ed anche meno attento alle misure di sicurezza, gioiosamente convinto che un giorno, fuori di lì, potrà dedicarsi ad arti che non sporcano il muso di nero col carbone (da lì il soprannome di “musi neri” dato ai minatori), come la poesia. A ricordar loro come funziona la turnazione e la serietà lavorativa della miniera, c'è il minaccioso “Capo” (interpretato da un convincente Davide Clivio).
Nel pozzo numero 1, scopriranno che in realtà avevano imboccato la strada che li conduceva inesorabilmente verso un destino crudele.
Antonio e i suoi compagni moriranno nello scoppio infernale, mentre Sandro rimarrà vivo a piangere il fratello… e a imparare, col dolore, anche a mettere in caschetto protettivo in testa. Desideri, sogni, rimpianti di giovani come tanti altri che si infrangono. Inesorabilmente.
E poi, la rassegnazione, la disperazione, la paura e l’attesa; il ricordo di chi rimane vivo e di chi li aspetta a casa. Ancora.
A fare da cornice al toccante spettacolo, il monologo sui dati storici, recitato da Michele Di Mauro (che è anche il co-autore del testo, insieme a Federica Vicino e Marco Finucci), e le speranze e poi i dolori delle donne (madri, fidanzate e vedove) che vedevano la partenza, che non immaginavano essere definitiva, dei loro amati uomini.
Una storia dura e toccante. Ma descritta da una regia appassionante.
Gli altri interpreti della pièce sono: Rita De Bonis, Nicky De Chiara, Rossella Remigio, Lina Bartolozzi, Denise De Luca, Pino Cifaratti, Marika Liberatore, Lorenzo Mazzocchetti, Giorgia Starinieri, e con la partecipazione di Antonio Duronio e Aldo Spahiu.
Due parole meritano di essere spese per il lavoro tecnico-artistico che sta dietro la costruzione della rappresentazione. Al di là della drammaturgia, classica, fatta di parole, che pure era ben modellata, basata sul linguaggio vero, anche colloquiale, ma certamente studiato a tavolino da chi conosce bene le tecniche e convenzioni dell’arte letteraria e teatrale in particolare, vanno notati i movimenti. Non solo quelli coreografici degli attori, ma anche quelli dell’insieme dello spettacolo, comprendente anche musiche e scenografie.
Infatti, come ha ricordato la regista della pièce, Federica Vicino, lo spettacolo è nato nell’ambito delle tecniche di contact improvvisation teatrale, un tipo di recitazione nato a partire dal contact improvvisation della danza (nata negli anni ’70 negli USA nel contesto delle sperimentazioni dei linguaggi artistici post-moderni); si tratta di una tecnica fondata sulla forza di gravità (il corpo è educato al peso, alla dinamicità, allo spazio/tempo), sulla fiducia reciproca e la fluidità dei movimenti, quindi, sul rapporto col pavimento e con l’”altro”. La Contact Improvvisation ha attinto anche ad altre tecniche e discipline, oltre la danza, come alcune arti marziali (Aikido, TaiChi), meditazione e ginnastica.
Come fa capire la denominazione stessa della disciplina, l’elemento base è il contatto che l’attore attiva tra sé e gli altri, ma anche tra sé e lo spazio circostante (la scena); a questo procedimento si aggiunge anche il contatto che l’attore può attivare con se stesso (con la propria dimensione interiore), attraverso il training autogeno e la pratica detta Contact Emozionale.
Entra in gioco, quindi, il contatto globale (auditivo, cinetico, percettivo/energetico ed anche affettivo) dell’artista con i suoi partner e con ciò che c'è intorno (il terreno, lo spazio, la forza di gravità, etc.).
Il Contact Improvvisation costruisce un flusso emozionale e creativo nell’ambito del quale l’attore ripropone sulla scena le coordinate della propria espressività acquisite attraverso la tecnica. I punti di contatto fisico e le emozioni diventano il punto di partenza di una esplorazione fatta di movimenti improvvisati che poi vengono riuniti insieme da una coreografia studiata sulla drammaturgia della pièce dalla regista dello spettacolo.
Da essa derivano tecniche recitative, descrittive e registiche oggi all’avanguardia.
Nel maggio prossimo, la pièce “L’uomo-carbone” verrà replicata in Belgio, a Bois du Cazier, sul luogo della tragedia rievocata, ospite dell'amministrazione locale, grazie anche al sostegno dell'Associazione "Minatori vittime del Bois du Cazier 08-08-56 -Lettomanoppello", nell’ambito di una tre giorni che l’associazione, presieduta da Nino Domenico Di Pietrantonio, ha organizzato.
Infine, per dovere di cronaca, vale ricordare che attualmente è in vita soltanto uno dei superstiti della tragedia di Marcinelle, il manoppellese Nunzio Mancini.