Bologna è terra di debutti illustri e nel ruolo di Norma, dopo quello di Daniela Dessì nel 2008, il 2013 segna l’anno di Mariella Devia. L’allestimento è quello ideato per il Comunale da Federico Tiezzi con l’impianto scenografico di Pier Paolo Bisleri e i sipari dipinti da Mario Schifano. Il regista, oltre a suggerire un’atmosfera, cerca un modo di rappresentazione che si presti a un’indagine più profonda e adotta una simbologia ricorrente, la quercia e la luna, per indagare un conflitto interiore che ha le sue radici in un sistema di opposizioni fra romanità e barbarie, cultura e natura.
La quercia è una sagoma vuota, stilizzata e luminosa, che scende dall’alto durante “Casta Diva” per marcare un rito, ma, dipinta sui sipari con pennellate drammatiche e accese, evoca il conflitto della guerra o delle passioni. La luna, oltre che globo vitreo sullo sfondo animato da venature azzurrine, è elemento caratterizzante di un quadro di paesaggio che arreda l’interno “borghese” della sfera domestica di Norma e dei figli.
Sul piano scenografico s’instaurano delle contrapposizioni fra gli aspetti naturali-barbarici (evocati dagli acrilici di Schifano) con un’iconografia neoclassica dove abbondano citazioni figurative che rimandano a David e Canova: ambienti di gusto impero stilizzati giocati sui toni del bianco, colonne, are e resti di statue antiche, come la gigantesca testa marmorea rovesciata del finale preludio di morte.
Per le scene di massa il regista fa largo uso di”tableaux vivants”, dove i guerrieri sulle scale e intorno all’altare si muovono “al ralenti” con una gestualità “figée” che rimanda a quadri neoclassici di argomento storico (Il giuramento degli Orazi). Anche il movimento scenico dei protagonisti è volutamente stilizzato e scolpito, il gesto è sospeso, il braccio teso verso l’alto e non a caso entrano in scena all’indietro in una sorta di “rewind” (espediente interessante, ma qui fin troppo sfruttato) per isolare e bloccare un particolare stato d’animo.
Nonostante la regia abbia esiti alterni e qualche dettaglio inutile, non distoglie l’attenzione dello spettatore dal cuore del dramma e il light design di Gianni Pollini risulta efficace per segnalare i contrasti e scolpire i volumi.
Ma in questo caso, più che lo spettacolo, il motivo d’interesse era costituito dal debutto di Mariella Devia nella versione per due soprani. Il nome Devia sembra un marchio di fabbrica che presuppone rigore e perfezione (ai limiti della freddezza), ma questa Norma, oltre ad essere magistrale per tecnica, stile e tenuta, è risultata anche emozionante. Sarà anche un debutto tardivo, ma l’artista è consapevole dei propri mezzi e ha imparato a sfruttarli al meglio e questo debutto, a lungo meditato e voluto, costituisce, se non l’apice, una delle sue interpretazioni migliori. Da ligure schiva Mariella Devia fa di Norma una tragedia tutta interiore, misurata e sofferta, ma non per questo meno drammatica. Ne esce un personaggio moderno di donna forte e matura (come si conviene a una sacerdotessa), abbandonata per una più giovane e bella che sembra ripercorrerne il destino. Si possono preferire altre voci o temperamenti, ma lei eccelle nel declinare con la voce tutte le sfumature del patetismo: dolcezza, amarezza, malinconia, disillusione: è questo il belcanto. “Casta Diva,” oltre a un’ennesima dimostrazione dei “fiati” leggendari, ferma il tempo, ci porta in una dimensione mistica che si scioglie in una carezza. Dove è richiesta maggiore “forza” , la voce per natura leggera sceglie la strada dell’incisività e dell’autoritas e il personaggio acquisisce giusta, ma pur sempre neoclassica, statura tragica. Considerate le voci delle due interpreti (simili e non in opposizione timbrica), Adalgisa funziona come riflesso ed emanazione di Norma e la versione per due soprani risulta efficace sul piano drammaturgico. Da brividi il primo duetto“ Oh rimembranza” dove la Devia trionfa per il gusto della sfumatura e della mezza voce: quanta disillusione in “io così fui sedotta“, sottovoce per esprimere la dolcezza di un amore che si teme perduto. Ma anche nel “Mira, o Norma” le due voci, quella più matura e dolorosa e quella più ancillare e soave, s’intrecciano in un sistema di specchi e rimandi che si dipana lungo una linea ininterrotta.
Se la versione per due soprani convince è anche merito di Carmela Remigio, che come prescritto ha ammantato il personaggio di un canto soave. Un’Adalgisa ancillare in quanto riflesso di Norma, ma non manierata, dalla recitazione moderna e un fraseggio sfumato espressione di una interiorità. Aguiles Machado esce tutto sommato vincitore nel confronto con il difficile ruolo di Pollione e se ne apprezza forza e comunicativa. Sergey Artamonov è un Oroveso dalla voce sonora anche se con qualche limite d’intonazione.
Come curiosità segnaliamo che in concomitanza con l’anno wagneriano il basso ha ben eseguito l’aria alternativa “Norma il predisse” che Wagner stesso compose per una rappresentazione di Norma a Parigi imitando lo stile belcantista. Completano adeguatamente il cast il Flavio di Gianluca Floris e la Clotilde di Alena Sautier.
Michele Mariotti riconferma la sua straordinaria vocazione e sensibilità per questo repertorio. Sotto la sua direzione il tessuto orchestrale si addensa e distende in un gioco sempre mutevole di spessori e colori, sempre all’insegna di continuità ed equilibrio.
La direzione perfettamente bilanciata emana un senso di armonia neoclassica senza con questo risultare noiosa, anzi, il lavoro sulla dinamica rende la partitura mobile e avvincente. Quando il canto tace percepiamo la varietà e la diversa consistenza dello strumentale, ma poi sembra quasi annullarsi dietro le voci per sostenerle e consentire al canto il suo ricamo (con un’intesa evidente con la protagonista) in un ulteriore gioco di rimandi e richiami.
Ottima la prova dell’orchestra bolognese; di buon livello anche quella del coro preparato da Andrea Faidutti.
Uno stato di commozione generale ha concluso la serata: nessuno voleva andarsene via (Devia compresa) per paura di svegliarsi dal sogno.