Teatro

Moni Ovadia di scena al Teatro Massimo di Cagliari con Cabaret Yiddish

Moni Ovadia di scena al Teatro Massimo di Cagliari con Cabaret Yiddish

La lingua, la musica e la cultura Yiddish, quell’inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, condizione universale dell’Ebreo errante, del suo essere senza patria sempre e comunque, sono al centro di Cabaret Yiddis, spettacolo di e con Moni Ovadia che andrà in scena sabato 6 (ore 21) e domenica 7 dicembre  (ore 19) al Teatro Massimo di Cagliari.

Moni Ovadia è uno dei massimi rappresentanti della cultura italiana che più ha approfondito - tramite il suo lavoro - i temi del conflitto in Medio Oriente. Attore, drammaturgo, scrittore, compositore e cantante italiano, Ovadia porterà in scena la cultura delle proprie origini. 

La messa in scena sarà anticipata sabato 6 dicembre, alle ore 18, presso la sala Minimax, da un incontro tra l'attore e Luca Foschi, giornalista inviato di guerra, dal titolo "L'infinito conflitto", in cui si parlerà del conflitto tra Israele e mondo arabo-palestinese;  sempre sabato, alle ore 19, sarà anche proiettato il film "Vogliamo vivere" di Ernst Lubitch, una pungente satira verso il nazismo e le sue barbarie

Si potrebbe dire che lo spettacolo abbia la forma classica del cabaret comunemente inteso. Alterna infatti brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni che la comprovata abilità dell’intrattenitore sa rendere gustosamente vivaci. Ma la curiosità dello spettacolo sta nel fatto di essere interamente dedicato a quella parte di cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.

Uno spettacolo che “sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe”. Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama “il suono dell’esilio, la musica della dispersione”: in una parola della diaspora.

«Ho scelto di dimenticare la “filologia” per percorrere un’altra possibilità proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali “scientificamente determinate” per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere “santo”, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime - dichiara Moni Ovadia, che continua - Gli umili che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro».