Teatro

Monte-Carlo, Don Giovanni

Monte-Carlo, Don Giovanni

Erwin Schrott "è" Don Giovanni per il carisma virile innato ed esibito, una smania predatoria "necessaria", il portare alle estreme conseguenze il piacere presente: la produzione in scena a Monte-Carlo lo conferma.

Monte-Carlo, Opéra de Monte-Carlo, “Don Giovanni ” di Wolfgang Amadeus Mozart

Don Giovanni c’est moi (parola di Erwin Schrott)

Don Giovanni è di nuovo in scena nella Salle Garnier dell’Opéra di Montecarlo, la sala da concerto tutta stucchi, ori e volute, incastonata come un gioiello all’interno del Casino monegasco e anche l’allestimento di segno classico, ideato nel 2008 dal regista e direttore dell’Opéra Jean-Louis Grinda, si addice alla raffinata cornice e si apprezzano i costumi  e le scene eleganti di Rudy Sabounghi che evocano con pochi tocchi un’atmosfera intrisa d’ispanità e mistero. Gli esterni sono caratterizzati da un’architettura metafisica che trae evidente ispirazione dalle piazze di De Chirico, di cui riproduce le prospettive con grigi edifici porticati, una statua al centro e uno sfondo che ha i toni del giallo ocra e del verde petrolio propri del pittore. La citazione metafisica immerge la vicenda in una situazione spettrale e onirica e, durante l’ouverture, Don Giovanni avvolto in brume grigie ritrova tra le comparse dalla parrucca bianca e il volto coperto di nero le donne da lui amate. Le figure femminile torneranno anche nel finale a lambire il libertino come fiamme chiudendo così il cerchio. 
Negli esterni la scena è aperta sullo sfondo è variano i colori delle luci (light design di Laurent Castaingt) a seconda della situazione, tingendosi di sfumature  rosate e azzurrine per ambientare l’amore giovane e naif di Zerlina e Masetto; gli interni sono dominati da un grande lampadario e illuminati di rosso cupo ospitano le proiezioni di ombre grigie che accompagnano il racconto di Donna Anna e dei suoi “fantasmi”. Con pochi tratti l’ambiente evoca una Spagna seicentesca, come la passatoia praticabile dalle volute in ferro sospesa da cui Don Giovanni versa dall’alto in segno di scherno il vino sulle maschere, che ricorda i balconi in ferro battuto di Siviglia. La produzione sottolinea la componente comica del dramma giocoso, servo e padrone indulgono in gag e battute che sembrano scaturire dal momento e anche Elvira, se pur personaggio dichiaratamente tragico, si presta al gioco e fa suo malgrado da spalla al marito fedifrago.
Lo spettacolo d’impostazione tradizionale ha qualche concessione al moderno: la musica talvolta tace per dare rilievo ad alcune azioni sceniche, come i due mimi servitori che puliscono il palcoscenico dal sangue del Commendatore o Don Giovanni redivivo che con irriverenza tira il sipario di fine rappresentazione dopo il concertato finale.

Erwin Schrott  ci ha colpito fin dagli esordi per una tale immedesimazione con il ruolo di Don Giovanni da rendere difficile stabilire la linea di confine fra interprete e personaggio. Erwin Schrott “è” Don Giovanni per il carisma virile innato ed esibito, una smania predatoria “necessaria”, il portare alle estreme conseguenze il piacere presente. Col tempo il suo Don Giovanni si è fatto più mefistofelico e beffardo, forse più “cattivo”, ma la voce è quella di sempre, bellissima per colore e dal timbro suadente, divenuta più possente e matura come conferma l’esplosione sonora  di “Fin ch’han del vino” e dell’ultimo quadro. Gli si può obiettare di risolvere i recitativi in un parlato estraneo ai “canoni” della tradizione, indulgendo, non senza compiacimento, in una comunicazione molto vicina all’improvvisazione. Schrott gioca con parole e partitura come se quanto scritto fosse solo un canovaccio su cui improvvisare, variando inflessioni e battute sulla base delle reazioni della sala, di una bella donna scorta in platea, dell’ispirazione del momento, un po’ come un personaggio della Commedia dell’Arte. Può piacere o infastidire ma domina la parte e la scena con un marchio di fabbrica inimitabile.

Adrian Sampetrean è un Leporello ideale per un Don Giovanni siffatto: si percepisce una riuscita interazione scenica e stilistica e servo e padrone diventano due facce della stessa medaglia; Leporello scimmiotta il padrone quando appare da sotto il sipario intento a srotolare un’amante nascosta in un lenzuolo e ne imita le inflessioni parlate con una pseudo improvvisazione; inoltre la voce ben proiettata piace anche per timbro e dizione curata. Patrizia Ciofi ha spesso affrontato Donna Anna, ruolo di cui restituisce un’interpretazione sensibile e nervosa tutta la fragilità aristocratica: seppur la voce sia apparsa affaticata e con qualche velatura, si apprezza come l’interprete di razza riesca con doti di dizione, articolazione e fraseggio alla piena definizione del personaggio. Sonia Yoncheva  è una delle voci più interessanti del panorama internazionale e la giovane cantante bulgara, già affermata in Francia ma ancora troppo poco conosciuta in Italia, sta calcando le orme di Georghiou e Netrebko nello star system della lirica; oltre alla bellissima voce di soprano lirico, piena, consistente e ricca di colori, si apprezza la cura musicale e ritmica: tutto risulta perfetto e naturale senza affettazione alcuna e la sua Elvira ha una miriade di sfumature ed inflessioni; inoltre se ne apprezza anche il gioco scenico pertinente e pure il volto incantevole, la postura elegante e i bellissimi movimenti delle mani. Il giovane Maxim Mironov è un Don Ottavio da seguire per tecnica e garbo e “il mio tesoro” strappa l’applauso. La coppia di popolani è affidata a due giovani cantanti interessanti per materia vocale ma ancora un po’ acerbi dal punto di vista interpretativo: Loriana Castellano è Zerlina, Javier Radò un Masetto di voce brunita. Giacomo Prestia  è un Commendatore particolarmente solido e autorevole, qua trasformato in statua di pietra metafisica.

La direzione di Paolo Arrivabeni è equilibrata e funzionale al racconto e in sintonia con l’impostazione registica. Una lettura che privilegia le esigenze del canto e che, se pur manchi di una spiccata cifra interpretativa, dà pieno risalto alle voci sottolineando i momenti di indugio e di effusione lirica. L’orchestra di Montecarlo, favorita dall’acustica della sala, si distingue per un suono ricco e rotondo. Buona anche la prova del coro preparato da Stefano Visconti.

Un pubblico caloroso ed entusiasta ha confermato il successo di una produzione che fa il tutto esaurito in tutte le recite.

Visto a Monte-Carlo, Opéra de Monte-Carlo, il 27/03/15