Per fortuna si è ormai del tutto sopita l’antica diatriba inerente la “Messa da Requiem” di Verdi; cioè se sia, o non sia, musica sacra. Se per la struttura e le sue dimensioni appare più un drammatico oratorio celebrativo, pensato per commemorare la figura di Alessandro Manzoni nel primo anniversario della morte, nondimeno il testo è, né più ne meno, quello della liturgia cattolica, e ne esprime appieno le intenzioni ed il significato interiore. «Se questa musica è più adatta al teatro che alla chiesa, tanto peggio per la chiesa», ha commentato argutamente Charles Osborne in “The completes operas of Verdi” concludendo, contro quanti nel tempo l’hanno criticato per l’apparente ambiguità, che «questa mentalità critica non ha mai meritato risposta. Se alcune parti del Requiem di Verdi sono teatrali, e godibili in quanto tali, è teatrale anche molta musica del pio Mozart». In parole povere, accingendosi a questa tarda impresa «Verdi trasferì al Requiem la sua arte drammatica» così come in precedenza nelle sue opere «si era preoccupato di esprimere il significato delle parole e delle situazioni che il librettista gli sottoponeva». Insomma, chiesa o no, la “Messa da Requiem” è un capolavoro assoluto, e questo basti.
Riccardo Muti non ha diretto molto al Ravenna Festival di quest’anno, assommando due sole presenze; ma ha voluto però donarci un’esecuzione come sempre memorabile del “Requiem” dedicandola, nell’ambito del ricorrente tema annuale de “Le vie dell’amicizia” (concerti che hanno già raggiunto in passato luoghi simbolo della sofferenza dell’umanità, dalla Bosnia alla Siria, da Beirut a Gerusalemme), ai caduti di tutti i conflitti. In effetti l’intero Ravenna Festival 2014, imponente manifestazione passo passo giunta alla sua 25a edizione, aveva come leit-motiv di fondo il centenario dello scoppio della Grande Guerra, con tutto un corollario di temi, concerti ed eventi ad essa in qualche modo ad essa collegati.
E’ anche per questo che la consueta replica del concerto di chiusura della rassegna ravennate, il giorno immediatamente seguente, quest’anno si è significativamente tenuta dinnanzi ai monumentali gradoni del Sacrario Militare di Redipuglia dove riposano oltre 100.000 nostri caduti, alla presenza del presidente Napolitano, del presidente sloveno Borut Pahor, del presidente della Croazia Ivo Josipovic, e di quello del Consiglio federale austriaco Ana Blatnik. Grandioso evento musicale e celebrativo al tempo stesso, per fortuna teletrasmesso in diretta da RAI Tre la quale, almeno questa volta, ha ben assolto al suo dovere di diffusione culturale.
Giusto vent’anni fa Muti dirigeva al Festival 1994 le eccezionali masse del Maggio Musicale Fiorentino, istituzione allora nelle sue mani. Stavolta l’ampia formazione orchestrale messa in campo, adeguata in ogni sua sezione, veniva dall’unione di due realtà diverse ma entrambe a carattere giovanile: la più nota Orchestra Luigi Cherubini fondata da Muti giusto dieci anni fa, e la European Spirit of Youth Orchestra, ultima evoluzione dell’Orchestra Sinfonica Giovanile Internazione fondata nel 1988 dall’italo-sloveno Igor Coretti Kuret, e composta una novantina di allievi di scuole e conservatori d’ogni parte d’Europa. Nelle prime parti, sedevano poi musicisti provenienti dalle file dei Berliner Philarmoniker, della Chicago Symphony, della Filarmonica di San Pietroburgo, dell’Orchestre National de France, della Philarmonia Orchestra, dei Wiener Philarmoniker, del Teatro Verdi di Trieste e del Théâtre Royal de La Monnaie, chiamati a raccolta da Muti stesso. E a rinfoltire i ranghi subalterni, alcuni allievi dei due conservatori giuliani, il “Tartini” di Trieste e il “Tomadini” di Udine. Un ensamble composito dunque, la cui costruzione assumeva un netto significato allegorico e paradigmatico. Anche la calibratissima sezione corale, ineccepibile in ogni passaggio, era fusione di due diverse realtà, entrambe provenienti da quel territorio incuneato tra Slovenia ed Austria : il Coro del Friuli-Venezia Giulia curato da Cristiano Dell’Oste, e il Coro del Teatro Verdi di Trieste preparato da Paolo Vero. Una compagine duttile e sensibile, capace di deflagare potente nel suono, ma senza violenza, e subito piegarsi nel muto dolore della contemplazione.
Che dire della direzione di Riccardo Muti? Che della partitura e del suo significato interiore e musicale ha una padronanza totale ed assoluta; che nell’ampio spazio del PalaDeAndrè è risuonata una concertazione solida e scultorea, dalla cristallina drammaticità, che nulla concedeva alla facile oratoria. Una esecuzione dai tratti limpidamente severi e marmorei, dal pieno carattere neoclassico, eppure intimamente coinvolgente per lo spirito nobile e severo, intriso di vera commozione, umano e palpitante. Passionale e vigorosa ma mai magniloquente, intensa ed epica ma priva d’ogni traccia di retorica. Lo assecondavano in questo suo cammino due soliste di indubbia levatura quali Tatiana Serjan, con un “Libera me” dai tratti stupefacenti, e la brava Daniela Barcellona, latrice di un appassionato canto nel “Liber scriptus”. Due interpreti peraltro già presenti nella bellissima esecuzione del 10 ottobre 2013, esatto bicentenario della nascita di Verdi, guidata da Muti con la Chicago Symphony & Choir (in YouTube al link https://www.youtube.com/watch?v=lMWQBwFb98Q). In più, accanto a loro stava un basso di nobile lignaggio e perfettamente adeguato al ruolo quale Riccardo Zanellato, con un “Confutatis maledictis” che raggelava l’ascoltatore; di contro, nuoceva un po’ una certa leggerezza vocale di Saimur Pirgu che non ha saputo conferire, ad esempio, il giusto peso vocale e il necessario pathos all’episodio dell’ “Ingemisco”.
Comunque sia, con Muti la ripetizione di un capolavoro non conduce mai alla routine, ed anche questa resta una esecuzione tutta da ricordare. Come credo faranno le quasi 4.000 persone presenti al PalaDeAndrè, che hanno tributato applausi interminabili a tutti gli artisti. E mentre si usciva insieme alle stelle, veniva in mente ancora un’altra riflessione di Osborne, e cioè che «la tranquilla rassegnazione e la gioiosa anticipazione di una vita dell’Oltretomba non rientravano nel suo modo di pensare. Il Requiem di Verdi non è una messa per la morte, ma per la vita».