L’apertura del Napoli Teatro Festival 2018 è stata dedicata a un lavoro di respiro europeo.
Per l’apertura del Napoli Teatro Festival 2018 il direttore artistico Ruggero Cappuccio ha voluto un lavoro di respiro europeo e di fattura tutta napoletana: quel Regina madre di Manlio Santanelli che in poco più di trent’anni è stato rappresentato in una decina di lingue e in diversi paesi del mondo, e che Eugène Ionesco applaudì come scrittura esemplare del nostro tempo.
Sottolineature psicologiche
La messa in scena di questo debutto viene affidata a Carlo Cerciello, fantasioso regista napoletano che qui compie una scelta di rappresentazione molto netta: quella di trattare l’opera come un classico, come scrittura che appartiene alla cognizione dello spettatore-tipo, e non come testo “vivente”. Cerciello infatti sottrae alla drammaturgia il suo aspetto convenzionale, gli elementi di sorpresa, il realismo della scrittura, per spostare la rappresentazione fra le zone di penombra del testo e dare forma ai segnali indiretti della narrazione: allusioni, sottintesi, evocazioni.
La pagina originaria di Santanelli ha la forma di una commedia familiare dai toni vivaci, con momenti di schietta comicità. Al tempo stesso la vicenda è attraversata da un sottotesto urticante, che traccia il conflitto psichico fra la madre e il figlio; una piccola marea nera che monta impercettibilmente ed emerge sul piano diegetico poco alla volta, a partire dalla metà del primo atto.
La fabula chiede allo spettatore di lasciarsi intrappolare nell’andamento farsesco per poi subire i contraccolpi della scrittura, fatta di rovesciamenti e colpi di scena che sospingono poco a poco l’azione nell’abisso edipico della relazione fra i due protagonisti. Invece la regia di Cerciello sposta da subito l’accento sulla dinamica psicologica fra i personaggi: ecco allora due fantocci a guisa di Pinocchio che sin dall’aprirsi del sipario dichiarano la grande favola della menzogna su cui è costruito il rapporto madre-figlio, mentre il salottino piccolo-borghese dell’originale ambientazione realistica viene soppiantato da un gigantesco letto che ferma il tempo: su quel letto, come in una perpetua infanzia, Alfredo subisce senza difesa i colpi della madre.
L’andamento drammaturgico originario – i cambi di status nella relazione, le irruzioni narrative, l’incertezza del conflitto – viene perciò limitato per spostare la messa in scena nella sfera oscura della relazione; così, ad esempio, l’esistenza del diario segreto di Alfredo – che nel testo è collocato alla fine del primo quadro come crepa inattesa, come primo punto di rottura – viene qui accennata già dall’esordio della rappresentazione, sottraendo allo spettatore il possibile effetto-sorpresa dello svelamento. In questa scelta ritorna l’elevazione del testo a classico: se la vicenda è materia nota allo spettatore, il regista non replica la finzione di uno spiazzamento ormai non più possibile.
Cambi di registro
La cesura fra primo e secondo atto – che nel testo originario separa la fase vitale dei personaggi dalla loro ineluttabile discesa nel baratro – è resa da Cerciello mediante un marcato cambio del registro espressivo: se nella prima parte viene accentuato il carattere comico dei dialoghi anche per mezzo di una recitazione accelerata e iperespressiva, nella seconda parte coerentemente i toni si fanno più oscuri e la recitazione più grottesca e misteriosa.
Anche la linearità della narrazione viene di conseguenza sparigliata: si affaccia in scena il personaggio di Lisa, sorella di Alfredo, che nel testo esiste solo attraverso la menzione indiretta dei protagonisti, e che qui prende vita in un gioco di triangolazione fra i due attori, come in una sorta di transfert psicoanalitico che lega le vicende di questa famiglia ad un unico grumo generatore. Meno comprensibile la scelta di regia che, oltrepassando le intenzioni dell’autore, fa concludere la madre in lacrime, come in una sorta di resa finale, di abbandono del proprio personaggio: una soluzione che conduce ad un punto fermo la storia, laddove il testo originario prospettava un epilogo ambiguo e disturbante.
Il maggior punto di forza di questa esecuzione è senz'altro nella magnifica interpretazione dei due attori: una possente Imma Villa, che già nei primi minuti polarizza la tensione del pubblico sul suo personaggio rovente; e un eclettico Fausto Russo Alesi, che al preciso ruolo di ribelle sconfitto nella prima parte alterna la varietà delle espressioni e dei colori psichici nella seconda.
Pregiata la cornice musicale di Paolo Coletta – una vera e propria ambientazione mentale, una scenografia sonora che avrebbe meritato forse maggior presenza – ed efficace la scena di Roberto Crea, col letto-gabbia che asseconda in modo coerente l’idea fondativa di questa applauditissima messa in scena.