Teatro

Nessuno, fu.

Nessuno, fu.

La disposizione evoca un’arena per la tauromachia, Odissea anch’essa, ed il terreno scuro della scena realizzata da Francesco Esposito, che invade l’intera platea del Teatro Bellini, ci si attende venga solcato dai piedi nudi di un combattimento, sia esso fisico, sia esso spirituale, un po’ meno forse ideologico. E la lotta arriva presto, decomposta fra la sua storia procellosa ed il balzo nella contemporaneità.

Una quantità di attori impiegati notevole (Diletta Acquaviva, Claudio Javier Benegas, Pippo Cangiano, Viviana Cangiano, Roberto Capasso, Marco Mario De Notaris, Adriano Falivene, Annarita Ferraro, Stefano Ferraro, Giuseppe Fiscariello, Martina Galletta, Serena Mattace, Gioia Miale, Marco Palvetti, Elena Pasqualoni, Danilo Rovani, Lorenza Sorino, Luca Varone) si divide fra due piani fisicamente distinti, prendendo il via fra i popolani ed i loro stracci, che nei movimenti coreografici di Eugenio Dura invadono e scavano, strisciano ed ondeggiano, pronti ad essere guidati da un nonnulla che sappia far leva sui bisogni primari.

In questo “Odissè - In assenza del padre”, l’uomo dal multiforme ingegno è l’Assente, laddove l’obiettivo si focalizza su un Telemaco cui appunto manca il padre, ovvero il riferimento, come i suoi contemporanei mancano, al di qua della storia, degli stessi riferimenti che dovrebbero insegnare loro a non guardare ed a non ascoltare, prima ancora che a guardare e ad ascoltare. Egli non è ancora uomo, né all’altezza di ciò che gli si richiede, non sa e non può sostituire il genitore, mentre la crapula dei Proci dilaga.

La regia di Gabriele Russo lascia evocare Ulisse e la sua lontana epopea, lontana nello spazio ed anche nei sentimenti, da suggestioni come una barchetta di carta portata con le mani, secchiate di acqua della portata delle onde, oppure Scilla e Cariddi in versione coppia medio-borghese. Il senso dello smarrimento però si allarga alla generazione contemporanea, il testo lo evoca molto più spesso di quanto non facciano credere le esitazioni personali di Telemaco, e su questo punto ci si sarebbe potuti aspettare però una maggiore frequenza di pretesti per i contesti, un segno di nesso che facesse inglobare con più linearità la simbologia dei Proci (politicanti retrivi e corrotti che a chiare lettere rimandano alla passività del popolo la colpa della sua condizione di sottomissione) inserita nell’oggi del controllo mediatico della massa e dell’inanità di apparenti strumenti di democrazia partecipata come un referendum “Creatività controllata, creatività addormentata”.

Mentre del popolo restano le catene ataviche dell’insipienza (“Noi giovani faremo qualcosa. Ma cosa? Qualcosa!”), arriva perciò anche una lettura diversa di Ulisse (“Non più un Re, ma un rivoluzionario”), e magari più simile al legame che Omero (o chi per lui) fece del suo nome, nel libro XIX, al verbo ὀδύσσομαι (essere odiato): Odisseo è colui che odia, e chi odia porta la crasi. La disposizione dei personaggi in questo aiuta, nel contrapporre i due gruppi: popolani contro Proci, controllati contro controllori fra TV e Chiesa in echi di lontani osservatori a partire da Elias Canetti, in un finale che nello scambio di cappelli/simbolo della struttura autopoietica del Potere, e di parole copiate, trasformano inevitabilmente i nuovi ribelli in nuovi oppressori dalla mente abbacinata; ed è utile che questo si sperimenti mettendo in gioco anche un Teatro legato ad una tradizione come la sua.