Torinodanza 2015 ci ha regalato altre due preziose performance, che conducono ad interrogarsi sui confini tra ciò che è danza e ciò che non lo è, aprendo nuovi orizzonti di sperimentazione e di contaminazione artistica.
Un lavoro che ci saremmo attesi di vedere nella programmazione del recente Festival di teatro di figura Incanti e che invece ci sorprende per la sua collocazione ai confini tra teatro e danza, intesa qui come studio ricercatissimo sul movimento. Kamp, straordinaria produzione del collettivo olandese Hotel Modern, affronta la questione dell'olocausto in maniera completamente inedita, allestendo un campo di concentramento in miniatura, dove alle proporzioni fisiche in scala ridotta di personaggi e luoghi si contrappone l'eco amplificato delle violenze inaudite che in esso si svolsero: tutto avviene in presa diretta sotto i nostri occhi, portandoci fin dentro ad un orrore da cui ci siamo spesso in modo più rassicurante tenuti in disparte.
Liberati dai limiti oggettivi propri del corpo umano, le migliaia di pupazzi alti solo pochi centimetri mettono in scena le aberrazioni e le atrocità del Terzo Reich con crudo realismo, giocando sul piano simbolico avvenimenti che pochi finora avevano osato rappresentare. Un lavoro meticoloso ed articolato, affrontato con estrema cura in tutte le sue fasi, dall'ideazione alla creazione, alla messa in scena: non una sbavatura, non un eccesso o una lacuna.
Attraverso un uso omogeneo e opaco del colore e la ripetizione ossessiva di figure apparentemente tutte uguali, efficace rappresentazione dell'annichilimento dell'identità, tutto risuona volutamente freddo, per far scendere anche nell'animo dello spettatore quel gelo che permea le realtà ai confini dell'umano.
Eppure, quando la videocamera si avvicina e l'immagine ci è restituita ingrandita sul maxischermo, possiamo nettamente percepire le differenze di un volto dall'altro: facce rese simili da una comune paura, ma mai uguali nella loro disarmante individualità. Come definirebbe un campo di sterminio Marc Augè, celebre etnologo francese teorizzatore dei “non luoghi”? La spersonificazione è tale da rendere difficoltosa ogni forma di empatia: ci si emoziona, ma non si riesce ad esprimere il proprio vissuto emotivo. Tutto resta dentro, silente. Ogni forma di catarsi è volutamente esclusa, come a dire che non è nostro diritto, in quanto esseri umani, liberarci da quel dolore, ma solo condividerlo.
Aurora è l'ultimo capitolo della trilogia Will You Still Love Me Tomorrow?, attraverso la quale Alessandro Sciarroni propone una riflessione, non oggettiva ma mediata dalla traslitterazione artistica, sui concetti di resistenza, sforzo e concentrazione. In Aurora viene giocata una partita di goalball, disciplina paralimpica rivolta a persone non vedenti ed ipovedenti, da giocatori professionisti di questo sport, tutti bendati come previsto dal regolamento, per azzerare le differenze tra ipovedenti e non vedenti.
Sciarroni ha lavorato con questi atleti per un lungo periodo, studiandone il metodo di gioco ed accompagnandoli in un mondo per loro del tutto nuovo e sconosciuto, quello della danza, grazie al lavoro sinergico con uno staff artistico interdisciplinare, offerto allo sguardo del pubblico attraverso il film documentario, quasi un diario per la sua venatura poetica ed intimistica, realizzato da Cosimo Terlizzi, che ben sottolinea la peculiarità e la complessità del backstage di questa inusuale e sorprendente performance.
Sul palcoscenico delle Fonderie Limone di Moncalieri assistiamo dunque solo apparentemente allo svolgersi di un match sportivo, venendo invece immersi, talora con garbo talora brutalmente, in un diverso modo di vedere che è anche, e forse soprattutto, un modo differente di sentire: la mancanza di un senso acuisce gli altri, ma richiede anche una possibilità di concentrazione pressochè incompatibile con la rumorosa dimensione del quotidiano, qui rappresentanta da una musica in crescendo che, se per noi spettatori vedenti sostiene ed amplifica l'azione scenica, liberandoci da un silenzio il più delle volte imbarazzante, per questi atleti-performer privi della vista diviene invece ostacolo insormontabile, impossibilità d'agire, abisso di frustrazione. Un progetto che non solo ha offerto ai suoi protagonisti un'occasione formativa unica, ma che ci invita a riflettere sul nostro modo di relazionarci con l'altro e di accoglierlo, nella sua specifica individualità.