Nell’estate 1900 a Londra, Puccini vide la messa in scena dell’atto unico Madame Butterfly del drammaturgo David Belasco. In un secondo tempo fece tradurre l’omonimo ma discrepante racconto di John Luther Long del 1897. Forte fu l’influenza esercitata dal diario autobiografico Madame Chrisantéme del francese Pierre Loti (al quale si deve la figura di Suzuki, protagonista di questa peculiare versione) cui seguì un lavoro impostato dal punto di vista femminile, di Félix Régamey del 1894, Le cahier rose de Madame Chrysanthème. Il finale scelto da Puccini è invece frutto di André Messager per l’opéra comique Madame Chrysanthème del 1897.
A codesto articolato substrato letterario che rivestì peso preponderante nella nascita dell’opera come oggi la conosciamo, Madama Butterfly – Le ali spezzate di una tenue farfalla ha voluto ricollegarsi. Un ossequioso omaggio alle origini ispiratrici, frutto della spiccata creatività dell’autore e regista Massimo Pezzutti; il quale si è approcciato al capolavoro del genio lucchese con la dovuta deferenza, apportando un’intelligente contributo alla comprensione drammaturgica. Il testo ex novo in prosa, nella sua incisiva brevità, è risultato ricco di colte citazioni al libretto di Illica e Giacosa ed alle succitate forme romanzate e, avendo rispettato dottamente in molti passaggi la medesima scansione ritmica del corrispettivo cantato, ha dato vita ad un unicum che ha rivestito una propria valenza teatrale, parso inscindibile dal sunto musicale, affidato ad un organico orchestrale completo ed a tre voci soliste.
Le luci del palcoscenico allestito tra il verde della Tenuta Torre a Cenaia (Pisa) si sono accese sul debutto in prima nazionale (in verità rielaborazione di una primigenia versione “sperimentale”: iter ideativo anch’esso molto pucciniano) che ha costituito l’evento clou della IV edizione del CRESPINA OPERA FESTIVAL in co-produzione con il Consiglio regionale della Valle d’Aosta, dove lo spettacolo è stato replicato due sere dopo nel moderno auditorium di Aymavilles.
La Cho-Cho-San di Hiroko Morita ha traspirato sensibilità ed emozione; una voce tecnicamente ineccepibile e di bel colore al servizio di una vera interprete. Orfeo Zanetti ha disimpegnato il ruolo di Pinkerton con grande esperienza; emissione sicura in tutti i settori, dalla quale però, si sarebbe desiderata un poco più di brillantezza nello smalto. Il medesimo ruolo, ad Aosta, è stato sostenuto da Fulvio Oberto, dalla bella timbrica e potenza amministrata fino ad averne liricamente addolcito gli impeti, al limite però dello spoggio. Di colore scuro, a volte leggermente gutturale, lo Sharpless di Pier Luigi Dilengite; di buonissima attuazione scenica con la giusta importanza che si deve alla parola. La direzione e concertazione di Guido Maria Guida, a capo della ottima Orchestra Sinfonica della Valle d'Aosta, ha regalato con l'estrema sicurezza e la ricercatezza del gesto le nuances continue che colorano la partitura. Una lettura raffinata, capace di cogliere i particolari come di donare ampio respiro ai lunghi periodi, estremamente attenta al palcoscenico ed alle esigenze rappresentative. Nella replica valdostana la bacchetta è passata nelle giovani mani di Stéphanie Praduroux che ha condotto con sicurezza.
Tutto all’esordio era già compiuto. In una sorta di flash-back dal sapore cinematografico con sapiente uso di fermi immagine e ralenti, dalla voce narrante della servente Suzuki – la grandissima, straordinaria, impeccabilmente “giapponese” Paola Gassman - è scorso un flusso straniante di ricordi. Inquadratura che ha ripreso l’esterno dei fatti e l’interno delle percezioni sensoriali e spirituali; dove ogni movenza, attinta all’essenzialità rituale del Sol Levante grazie alla consulenza doc di Akané Ogawa (che ad Aosta ha pure sostenuto il ruolo di Suzuki), ha acquisito consistenza simbolica. Si pensi ad esempio al ricorrente atto di Butterfly di spalancare le braccia in un commovente amplesso esistenziale: rimando figurativo alla Croce cristiana, religione sposata dalla sventurata al momento delle nozze con l’americano, alla quale sono state metaforicamente inchiodate le ali/maniche del kimòno, mosse da vento registicamente complice; tarpate nel vano tentativo di librarsi in un volo di emancipazione. Significativa sovrapposizione scenica tra libertà e prigionia, realtà e finzione, vita e morte.
Il contesto di elegante linearità era affidato allo stile tanto sobrio all’apparenza quanto di dirompente profondità, della scenografa Ana Rosa Orozco. Un allestimento poeticamente astratto tramite il quale Pezzutti ha aperto una breccia nel muro dell’oggettività; la cui essenza onirica ha messa in risalto avendo moltiplicato, letteralmente, la funzione di proiezione nel futuro che Puccini attribuisce al figlio, all’innocente Dolore destinato a mutare nome in Gioia solo tra braccia estranee. Perciò il celeberrimo “coro a bocca chiusa” è stato affidato al Coro di voci bianche OperaFestival (unica libertà concessa alla fedeltà di spartito); esecuzione volonterosa per quanto bisognosa di più accurata preparazione. Un varco psicologico, paragonabile alle feritoie praticate dalla geisha nello shoji per scrutare l’orizzonte durante la lunga notte di veglia, attraverso il quale i cuori dei personaggi, rimasti in muta sospensione nei tre anni di attesa, hanno potuto per la prima volta parlare senza veli, caduti allo spezzarsi delle ali della tenue farfalla di Nagasaki. Momento culminante del pathos in incessante Crescendo; atto conclusivo di un amore struggente, delicatissimo e vulnerabile tuttavia così forte da avere costituito un esaustivo tutto, sinonimo del tempo e dello spazio.
Atmosfera in stridente contrasto con la prepotente pietas della Natura, impersonata da barriere di bambù ed inquadrata in funzione animistica, partecipativa. Un destino cieco e insensibile la cui ombra ha progressivamente coperto la vivace giocosità della quindicenne, sbiadendone le sfumature caratteriali. L’insondabile buio del fato ha fagocitato la diafana luce emanata dalla “piccola dea della luna”. Tarando i loro respiri sugli afflati lirici pucciniani, Pezzutti ha tessuto attorno alle due tragiche eroine una sorta di invisibile camicia di forza mentale, rispondenza della “casa a soffietto” che, fornita dallo yankee di serrature, è divenuta prigione di alienato dolore; con invisibili pareti scorse inesorabilmente verso il fatale impatto cagione dell’infrangersi di sogni e speranze, incarnati da quel rosso papavero nuziale scelto per i manifesti, destinato ad appassire tra i capelli dopo essersi impresso indelebilmente come un tatuaggio nell’animo della sposa abbandonata. Una dimensione interiore dettata dai sentimenti, alla quale Pezzutti ha conferito l’impalpabilità di un fremito delle fragili membrane della crisalide, rivestite al contempo di tale possanza da avere osato dischiudersi alla crudezza della vita pur presagendo il drammatico ineluttabile destino di finire da essa trafitte. Straziante simulacro di una verità illusoria che forse non è mai stata e non potrà essere “più... mai più... mai più”.
Teatro