Parigi, Opéra Bastille, “Macbeth” di Giuseppe Verdi
LADY MACBETH, CASALINGA DISPERATA
Alla Bastille è in scena una nuova produzione di Macbeth commissionata dall’Opéra di Parigi al giovane regista russo Dmitri Tscerniakov, il cui Eugene Onegin proposto all’Opéra Garnier a inizio stagione aveva riscosso unanimi consensi di pubblico e critica. La coproduzione franco-russa è stata insolitamente allestita in Siberia, dove è stata rappresentata in anteprima a dicembre nell’avveniristico teatro di Novossibirsk, prima del debutto nella capitale francese.
Una foto satellitare apre l’opera e con zoomate da “Google Earth” inquadra un quartiere residenziale di anonime e identiche villette di una cittadina qualsiasi, volutamente priva di caratterizzazione geografica e temporale, per segnalare l’universalità della tragedia verdiana. Al levarsi del sipario, una piazza delimitata da casette stilizzate sotto un cielo livido di nubi in movimento si affolla di donne, uomini e bambini in abiti comuni: le streghe predicono il futuro a Macbeth e Banco, due nuovi ricchi in stato di ebbrezza. La zoomata successiva inquadra,oltre la finestra vetrata della villa di Macbeth incastonata nel sipario nero, un salotto borghese con il caminetto acceso. L’effetto cornice riduce il campo visivo e allontana i cantanti, rimpiccioliti come in uno schermo televisivo, facendo diventare lo spettatore testimone delle dinamiche criminali maturate nella “gabbia”. Solo due scene, la piazza e il salotto, si alternano nel corso dell’opera, precedute da zoomate 3D che contribuiscono all’illusione di penetrare nella vita (e nella coscienza) dei protagonisti e di una comunità non esente da tensioni e differenze di classe. Il regista nega ogni implicazione sovrannaturale, riconducendo il tutto al dramma interiore dei protagonisti, soli e senza antagonisti, che scivolano in una spirale di delitti, incapaci di dominare le proprie ambizioni. Macbeth e la moglie sono una coppia di arrivisti come tanti, divenuti criminali per follia o stupidità.
Il coro è fuori campo, niente streghe, i loro vaticini non sono altro che incubi o ossessioni di una mente turbata. O forse le streghe sono la folla che spia ,giudica, istiga, assetata di cronaca nera e che “uccide” Banco inghiottito dallo scorrere della folla. Forte il senso di déjà –vu, fra citazioni cinematografiche (da Lynch alle Desperate housewives) e gli efferati fatti di cronaca quotidiana a cui è inevitabile andare con la memoria. Nessuna condanna, anche gli altri sono “cattivi”: in Banco traspare una forte ambiguità, Duncano si diverte a schernire una Lady impacciata e a disagio attorniato da viscidi parassiti e dame altezzose. Il sangue appare solo alla fine, sul corpo di Macbeth, poco prima che la villetta degli orrori si sgretoli sotto i colpi provenienti dall’esterno (ma che noi non vediamo) che fanno piovere dalle pareti del salone polvere e calcinacci. Nonostante qualche punto debole (l’uso troppo marcato di risate e singhiozzi della folla, il brindisi risolto con un gioco di prestigio ridicolo, Macduff che canta “la paterna mano” nel lettino a sponde dei figli ) lo spettacolo è avvincente, merito di una recitazione curata nel dettaglio e di una direzione musicale tesissima , che scava come una lama nella partitura, mettendone in luce gli aspetti più drammatici e moderni .
Teodor Currentzis, giovane direttore greco di formazione russa, è la rivelazione della serata per come mantiene serrata e unitaria la narrazione con una gestualità fisica e trascinante, alternando pianissimi e sprazzi di languore a dissonanze e volate isteriche che esprimono tutta la tragedia.
Discreta la prova del coro, soprattutto in “ Patria oppressa “, particolarmente lenta e dolorosa.
Molto puntuali e curati i movimenti delle masse.
Il Macbeth di Dimitris Tiliakos è un uomo senza qualità, debole e insicuro, che fa compassione per come cerca rifugio nelle generose forme della consorte, ma, nonostante la coerenza interpretativa e un canto preciso, si avvertono limiti nel chiaroscuro e nel fraseggio che penalizzano la completa riuscita del ruolo. La scelta di fare leggere la lettera a Macbeth fuoricampo anziché alla Lady è efficace da un punto di vista teatrale, ma ne evidenzia i limiti di dizione.
Violeta Urmana è una Lady Macbeth di voce ampia e duttile, adatta a restituire l’aspetto camaleontico di una figura forte e fragile al tempo stesso. Se l’aria d’ingresso non convince appieno, trionfa nella scena del brindisi per la naturalezza di trilli e agilità ed emoziona il sonnambulismo per la straziante dolcezza. La Lady della Urmana è meno “demoniaca” di altre, ma questa produzione le è congeniale, col risultato di un personaggio intenso ed inquietante per la normalità apparente, il male che si nasconde dietro sembianze bonarie e inoffensive. Un’interpretazione che ci porta, se non ad amare, a giustificare il mostro dall’aspetto materno che non insegue il potere, ma solo la felicità dell’uomo mediocre che ama.
Ferruccio Furlanetto si distingue nella parte di Banco per la voce profonda e carica d’inquietudine e un fraseggio curato che attenua le durezze di emissione. Grande successo per Stefano Secco, acclamato nonostante la brevità della parte, per avere dato a Macduff voce luminosa, sfumature e giusta italianità di accento. Bene il Malcom di Alfredo Nigro; fra gli altri comprimari Letitia Singleton (Dama di Lady Macbeth) e Yuri Kissin (Medico e Domestico).
Un pubblico attento e coinvolto ha applaudito con calore tutti gli interpreti, riservando particolare apprezzamento al giovane direttore.
Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 13/04/09
Ilaria Bellini
Teatro