Paris, Théâtre des Bouffes du Nord, Schwanengesang D744
Gli insulti del cigno
Romeo Castellucci è decisamente più attivo e apprezzato all’estero che in Italia; proclamato regista dell’anno per la lirica in Germania, è una presenza sempre più assidua nella scena francese anche in contesti “conservatori”: sorprende ritrovare un’intervista al “regista dello choc” fra le pagine del settimanale “Paris Match” e sua sarà la regia di “Moses und Aron”, spettacolo inaugurale della stagione 2015-2016 all’Opéra de Paris. In questo processo di “consacrazione” il Festival d’Automne de Paris gli dedica un ritratto – omaggio biennale con la messa in scena nel 2014 di suoi tre diversi spettacoli: “Go down, Moses”, “Schwanengesang” e le “Sacre du Printemps” .
Lo Schwanengesang D744 è un Liederabend che s’ispira al Lied Il canto del cigno di Schubert ma non all’omonimo, nonché ultimo ciclo Schwanengesang D 975; Castellucci infatti ha selezionato, nell’ambito della produzione di Schubert, dieci Lieder provenienti da cicli diversi ma dalla “tinta” comune, accomunati dalla solitudine, dalla perdita, dall’addio. Lo spettacolo ha debuttato al Festival di Avignon nel 2013 e a Parigi è andato in scena alle Bouffes du Nord, lo storico teatro rinato grazie a Peter Brook, una sala dal fascino decadente, con pareti scrostate e stucchi non restaurati: la location ideale per mettere in scena l’abbandono. Diversamente dalla consuetudine liederistica, che vede vicini pianista e cantante per facilitarne l’intimità del dialogo, qui il pianoforte è posto all’estrema sinistra della scena accanto alla platea mentre la cantante è al centro, illuminata da un cono di luce. Una distanza incolmabile e significativa.
La cantante svedese Kerstin Avemo, in tailleur anni ’50 con spilla vintage sul bavero, è un cigno dal sorriso radioso e biondi capelli ondulati che ricorda Elisabeth Schwarzkopf, ineguagliabile liederista del dopoguerra divenuta un mito per generazioni di cantanti, come forse per quella che abbiamo davanti, un po’ timida nei confronti del pubblico. Il regista vuole forse risolvere il Liederabend su un piano metateatrale (pensiamo alla Frau ohne Schatten salisburghese di Christof Loy ambientata in uno studio di registrazione). O si tratta di una falsa pista?
Le parole dei Lieder scatenano qui con una marcata progressione associazioni e ricordi: sul volto levigato traspare una crescente inquietudine, lo sguardo s’incrina e si fa esitante, le mani diventano sempre più nervose. Durante la serenata (Ständchen) l’atmosfera si rasserena, ma poco dopo la cantante esita negli attacchi e il Liederabend s’inceppa in enigmatici silenzi. Nel corso del settimo Lied, Schwanengesang, avviene il crollo: scoppia a piangere, volge le spalle al pubblico per dirigersi verso la parete che chiude il boccascena, un muro del pianto dall’intonaco screpolato color rosso pompeiano. E di spalle sussurra al muro gli ultimi tre Lieder: Du bist die Ruh, la struggente ninna nanna (Wiegenlied) accompagnata dalle mani che accarezzano le pareti, fino all’addio (Abschied) sussurrato a fil di voce con cui esce di scena annullandosi nel buio e nel silenzio, un evaporarsi di voce e presenza.
Lo spettatore intuisce allora una storia non detta di addii e abbandoni che hanno straziato un’anima portandola a un passo dalla follia.
Con l’uscita di scena della cantante termina il Liederabend, ma non lo spettacolo.
Un’attrice posta al centro della scena in guisa di replicante, declama i versi dell’ultimo Lied disegnando nell’aria movimenti aggraziati che suggeriscono il paesaggio dell’addio: i profili delle montagne e delle colline, l’eco delle voci. Terminata l’estasi declamatoria e come risvegliatasi da un sogno si rivolge in francese al pubblico in modo insolente, alle domande sempre più insistenti (perché sono lì e che cosa sono venuti a fare) seguono insulti volgari ripetuti all’infinito come latrati di un’indemoniata in piena crisi.
Interferenze visive e sonore, ovvero flash di buio e lampi accompagnati da tuoni sonori (interferenze musicali ideate da Scott Gibbons) svelano per un istante il volto dell’attrice coperto da una maschera da Minotauro: il cigno è diventato un toro? La natura maligna ha il sopravvento sulla bucolica natura schubertiana? Dopo l’isteria segue il ripensamento, la donna si avvolge nella plastica nera che ricopre il palcoscenico come fosse un sacco della spazzatura e chiede venia. - Perdono, non sono che un’attrice – singhiozza e ricomincia a declamare i versi dell’addio, quello vero, con cui si chiude lo spettacolo.
E’ pertinente con l’intimismo schubertiano una riflessione sull’artista e sul difficile rapporto con il pubblico? L’atto dell’insulto porta significato o è fine a se stesso, applicabile con opportuno copia e incolla a qualsiasi rappresentazione? Se l’esecuzione dei Lieder ha messo in scena un sentire toccante e vero perché “discreto” ( e quindi schubertiano), l’intervento dell’attrice ci è sembrato troppo lungo e superfluo nell’economia dello spettacolo, anche perché, eccettuata qualche risatina, non scatena alcuna reazione se non la noia.
La prova di Kerstin Avemo è risultata eccellente dal punto di vista scenico per il lavoro di scavo compiuto su sguardo e movimenti e per la capacità di suggerire con minimi dettagli qualcosa di ineffabile. Si apprezzano il canto sensibile e l’eccellente dizione ma la tecnica rivela dei limiti nella gestione del fiato con inevitabili forzature. Alain Franco accompagna in modo defilato il canto, talmente discreto che talvolta il piano si annulla. La lontananza fisica non favorisce la sintonia fra voce e strumento e si avvertono delle sfasature nell’accompagnamento. L’attrice Valérie Drèville ha l’ingrato compito di risultare sgradevole e perturbante, di ripetere trenta volte in modo diverso “enculés” e sbattere in faccia al pubblico tutta la miseria dell’essere attrice. E lo fa bene. L’unico appunto che le facciamo è la dizione tedesca decisamente francesizzata. Ma sarà forse voluto?
Applausi alla fine, malgrado gli insulti.
Visto a Parigi, il 29 novembre 2014