Parigi, Opéra Bastille, “Tannhäuser” di Richard Wagner
TANNHAUSER ARTISTA INCOMPRESO
Tra le opere giovanili di Wagner Tannhäuser, oltre a essere la più matura e ricca di pagine sinfoniche, è quella più personale del compositore, intrisa di echi autobiografici. L’opera ha per tema il cantore e il suo errare fra due mondi opposti: quello dei sensi del Venusberg e il puro spirito dell’amor cortese della Wartburg.
La nuova produzione andata in scena alla Bastille con la regia di Robert Carsen non è focalizzata sulla contrapposizione amore sensuale e amore spirituale, è piuttosto un “portrait d’artiste” che analizza il genio e la sua solitudine, gioie e dolori insiti nella creazione artistica. Tannhäuser è l’artista prometeico che vuole andare “oltre”, superando i tabù di una collettività puritana e conservatrice, in un cammino irto di contraddizioni e incertezze, dilaniato dalla propria arte simboleggiata dal quadro blasfemo che si trascina appresso (il peccato che diventa feticcio).
Già nell’ouverture si traduce a livello visivo quanto espresso dalla musica in uno spettacolo coinvolgente e di grande forza drammatica. Nell’oscurità Tannhäuser cerca di fissare sulla tela le nude forme di Venere, la Musa statuaria dai capelli d’ebano e dalla pelle ambrata, sensualmente adagiata sul letto. Seguendo la progressione sinfonica i tocchi sulla tela, inizialmente timidi, diventano sempre più vorticosi e frenetici nella disperata ricerca di un’ispirazione che ha dell’ineffabile. Per enfatizzare la furia creatrice entrano in scena replicanti del pittore, centinaia di mimi che fendono l’aria con pennellate che sembrano pugnalate e che affollano la scena con enormi tele imbrattate di rosso sulle quali poi si denudano, si strusciano, divenendo vittime sacrificali insanguinate che usciranno di scena rotolando in un baccanale di grande presa emotiva in assoluta sintonia con la musica dionisiaca.
Nel secondo atto la scena è completamente bianca, una galleria d’arte pronta per un vernissage, la gara di poesia. Le luci sono accese anche in sala per sottolineare la continuità platea –palcoscenico, la “teure Halle” che Elisabetta dalla platea saluta con aria estatica. Per simmetrica il coro delle dame e dei cavalieri raggiunge il palcoscenico dalla platea, come se fosse il pubblico stesso interpellato al giudizio, in un ‘ironica rappresentazione di una società reazionaria e benpensante, che giudica e condanna l’arte (o l’opera) senza comprenderla.
Il buio domina nuovamente il terzo atto con Elisabeth straziata e discinta nell’attesa di una risposta che non trova negli schizzi d’artista disseminati sul pavimento. Il responso sarà dato in modo molto suggestivo dai pellegrini che sfilano sulla scena portando i quadri ridotti a intelaiatura senza tela (ovvero liberi dal peccato), che evocano una selva di croci, l’opprimente morale cattolica, in cui Elisabeth non troverà Tannhäuser condannato a trascinare con rabbia e violenza la grande tela insanguinata in una via crucis senza possibilità di assoluzione.
Alla fine la grazia: la buia parete si alza e appare, con un riuscito effetto sorpresa, una pinacoteca luminosa alle cui pareti sono appesi centinaia di riproduzioni di tutte le Veneri della storia dell’arte: Botticelli, Ingres, Tiziano, Goya, Courbet, Modigliani.. e il quadro di Tannhäuser, finalmente compreso, verrà appeso accanto ai capolavori.
Sensualità e purezza sono i due poli in costante dialettica rappresentati dalle due figure femminili, Venere ed Elisabeth, che, se pur diversamente caratterizzate, non sono in opposizione e v’è in una la traccia dell’altra e alla fine, come due grazie identiche e neoclassiche, si confonderanno fisicamente in un unico gesto, passandosi reciprocamente un pennello, preludio alla redenzione dell’eroe.
Eva- Maria Westbroek è una Elisabeth di eccellente vocalità, molto vicina all’ideale. La voce è ampia, omogenea, intensa e radiosa come la bionda protagonista dalla pelle lattea che ricorda quadri di Rubens. Una Elisabeth appassionata e pura, incandescente negli acuti e dalle suggestive screziature gravi.
Béatrice Uria –Monzon è una Venere voluttuosa e tentatrice per le forme perfette e la voce scura e sensuale di buona estensione. Una dea molto umana che, nonostante sensualità e bellezza, non riesce a trattenere l’amato.
Convincente Stephen Gould nel ruolo di Tannhäuser, grazie a una buona statura vocale riesce a reggere i momenti di esplosione orchestrale e a sostenere fino alla fine senza problemi un ruolo estenuante. Il suo Tannhäuser è rabbioso, lacerato, cattivo, un artista irascibile e arrogante che vorrebbe rovesciare l’ordine prestabilito, ma che nel suo intimo è tormentato dal dubbio sul proprio valore e incapace di scegliere.
Matthias Goerne è un grandissimo Wolfram, un autentico cantore che si distingue per la voce morbida e vellutata di timbro bellissimo. L’aria della gara e la romanza alla sera sono eseguite con tale poesia e raccoglimento che viene naturale pensare ai grandi liederisti tedeschi Fischer Dieskau ed Hermann Prey.
Franz Joseph Selig, dalla voce profonda di timbro rotondo, disegna un Hermann nobile e misurato.
Impeccabili anche gli altri: Michael König nel ruolo di Walther, Ralf Lukas in quello di Biterolf e Andreas Conrad in Heinrich.
La direzione di Pierre Vallet, il maestro assistente che ha sostituito nelle ultime due rappresentazioni Seiji Ozawa, è molto curata e attenta a far convivere lirismo, concitazione e abbandono, temprando l’aggressività degli ottoni e lasciando respirare gli archi, ottenendo sonorità morbide e ricche di colori. Un ottimo risultato per l’orchestra e il coro dell’Opéra di Parigi, impegnati al massimo e giustamente osannati.
Da segnalare un pubblico in preda al più autentico entusiasmo che ha applaudito con calore inusuale uno spettacolo straordinario che merita il viaggio e la riproposta, ci auguriamo anche in Italia.
Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 27/12/07
Ilaria Bellini
Teatro