Teatro

PARIGI, Wozzeck

PARIGI, Wozzeck

Parigi, Opéra Bastille, “Wozzeck” di Alban Berg COMMOVENTE WOZZECK Il Wozzeck di Alban Berg, tratto dai frammenti del Woyzeck di Büchner, è opera espressionista per eccellenza, innovativa per la struttura a scene caratterizzate da una propria autonomia formale, ma anche per la tematica originale: il soldato emarginato e sfruttato ridotto all’alienazione la cui unica via di fuga è l’autodistruzione. All’Opéra Bastille è stato presentato un nuovo allestimento da un team collaudato e particolarmente sintonico (Christoph Marthaler – Anna Viebrock – Sylvain Cambreling), in grado di assicurare simmetria e reciprocità fra musica e dramma nel rispetto delle indicazioni date da Berg stesso. La scena unica creata da Anne Viebrock è una tensostruttura di plastica che accoglie una squallida cafeteria dalle pareti trasparenti oltre le quali si scorge un parco giochi di gonfiabili di periferia dove saltano senza sosta tanti bambini. Wozzeck è addetto a tenere in ordine il locale, ha una divisa militare da inserviente ed è continuamente impegnato a pulire tavoli, spostare bicchieri, rimettere a posto le scarpe, con gesti compulsivi, quasi autistici, carichi di tristezza e angoscia. Anche in quest’occasione Marthaler parte dall’osservazione di una realtà sociale di cui offre una lettura impietosa secondo un’estetica dello squallore quotidiano e riempie la scena di figuranti tristi e muti. Povera gente, “ Wir arme Leute“, come dice Marie, motivo ossessivo che qui sembra essere applicato, oltre che a Wozzeck e Marie, anche alle altre figure vittime di prevaricazioni sociali e vuoti esistenziali. I movimenti lenti e ripetitivi comunicano, oltre a un senso di fatica, l’assurdità dell’esistenza di Wozzeck e dei personaggi che affollano il locale: il pianista immobile davanti a un pianoforte a cui sono destinate solo due battute, gli uomini soli davanti a un bicchiere colti nello squallore di una vita senza senso, mamme anaffettive che aspettano i figli come nella sala d’attesa di un medico. Marthaler nega gli elementi naturali e visionari presenti nell’opera per creare una situazione altamente metaforica ancora più straziante, Wozzeck vive le sue allucinazioni prigioniero in una squallida bolla di plastica le cui pareti ondeggiano evocando sinistri riflessi (lo stagno) e dove la luna è una fioca insegna al neon. E basterà spegnere la luce per annegare nel buio della scena. La caratteristica divisione in scene dell’opera viene tralasciata da Marthaler che crea un fluire continuo in cui le sequenze si concatenano con un senso di déjà –vu che blocca l’incalzare del ritmo drammatico. Le uniche cesure sono alla fine dei primi due atti, un silenzio a scena aperta che sembra infinito e che crea quasi disagio nello spettatore “costretto“ a vedere il bimbo di Marie, l’interlocutore muto per eccellenza, percorrere avanti e indietro la scena trascinando un pungiball in un’inutile ricerca della madre, uscita di scena per cadere tra le braccia del tamburmaggiore. Bambino a cui è affidata la straziante chiusura dell’opera quando, addossato contro la parete imitando la postura del padre (prefigurazione di un analogo destino da alienato) pronuncia un hop-hop flebile e sgraziato di fronte ai bambini schierati in banchi di scuola che sembrano ripetere – non senza cattiveria- la lezione della condanna. Strepitoso il Wozzeck di Simon Keenlyside, impacciato, rassegnato, nevrotico, pieno di tic che vorrebbe quasi nascondere, in uno stato di allucinazione palpabile, ma non esibita e quindi ancora più dolorosa. Wozzeck parla un linguaggio che gli altri non possono comprendere e che lui stesso è incapace di esprimere; questo senso di impossibilità e frustrazione si traduce nel movimento delle labbra che balbettano mute, nelle mani che stropicciano continuamente i pantaloni per scaricare la tensione accumulata, un uomo alienato che davvero “corre come un rasoio“ nella stanza con gli occhi rivolti verso il basso per non vedere, ma che comunica una grande umanità nell’appaiare con tenerezza le scarpe da bambino disseminate sul pavimento. Anche a livello vocale offre un ‘interpretazione di grande intensità e rigore facendo risaltare le incursioni melodiche e piegando la voce allo “Sprechgesang” senza mai perdere in musicalità, neppure nell’urlo. Da brivido. Non meno intensa Angela Denoke, disillusa e consapevole Marie, che osserva con pena mista a distacco il proprio e altrui fallimento. Colpisce per la sua interpretazione asciutta lontano dal sentimentalismo e particolarmente adatta a rendere un personaggio così disperato da sembrare freddo. Una ragazza madre come tante, jeans a vita bassa e pancino di fuori, dagli occhi che si accendono davanti a un orecchino o all’illusione dell’amore. La voce luminosa si adatta in modo molto naturale ai cambi di tessitura con varietà di fraseggio, regalando momenti di grande lirismo nelle pagine di apertura melodica come nella scena della lettura della Bibbia di cui fa scaturire tutta l’umanità dei perdenti. Di ottimo livello il resto della compagnia, uomini soli incapaci di reale comunicazione, come il vacuo e dolciastro Capitano di Gerhard Siegel, il Dottore grottesco e inquietante di Roland Brache, il tristissimo Andres di David Kuebler dagli occhiali spessi come fondi di bottiglia. Jon Villars è un Tamburmaggiore dalla criniera punk e carne debordante che ha la violenza dell’hooligan e che attrae proprio per l’ aspetto così triviale. Bravi anche gli altri, la procace Margret di Ursula Hesse von den Steinen, il pazzo di John Graham – Hall e Timothée Catrou nel ruolo del bambino. Sylvain Cambreling ha diretto con grande partecipazione un’orchestra in stato di grazia che ha saputo rendere tutta la gamma espressiva della variegata strumentazione di Berg, dalla precisione della musica da camera all’espansione sinfonica, ai suoni della musica popolare. La direzione ha privilegiato sonorità fluide e raffinate, offrendo una lettura molto precisa (ma meno contrastata e espressionista di altre interpretazioni) in piena sintonia con la regia malinconica e misurata. Teatro quasi esaurito per una prima seguita da un pubblico particolarmente attento che alla fine, dopo qualche attimo di silenzio, è esploso in una piena ovazione. Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 29/03/08 Ilaria Bellini