Desta perplessità l’ultimo omaggio di Roberto De Simone a Giovanni Battista Pergolesi. Legato da antica passione al compositore marchigiano, nonché responsabile di allestimenti memorabili (dal Flaminio a Lo frate ’nnamorato), l’autore della Gatta Cenerentola ha realizzato questa volta un’operazione che è insieme rinunciataria e invadente. Rinunciataria perché abdica a qualunque tentativo di narrazione drammaturgica. Il libretto di Pietro Metastasio, intricato, sì, ma dominato da straordinarie simmetrie, viene completamente destrutturato, e le schegge della trama così smembrata sono relegate nei sopratitoli che scorrono insieme alla sinfonia d’apertura e poi al centro del secondo atto, nonché in alcune allusioni pantomimiche che possono essere còlte solo da chi conosce già la fabula. Pochissimi segmenti di recitativo resistono al disboscamento, con la conseguenza che le arie si susseguono come gemme preziose ma irrelate, inserite in un flusso privo di direzione. In più, come di consueto, De Simone dispiega insistite e compiaciute contaminazioni, inframmezzando i numeri pergolesiani con materiali estranei: frequenti sono le apparizioni di un violinista in abiti settecenteschi (l’abilissimo Fabrizio von Arx), che rappresenta Pergolesi stesso intento a improvvisare sui temi dell’opera; nel secondo atto si ascoltano pagine dello Stabat mater (il «Quando corpus morietur» assegnato alla fisarmonica, il «Fac ut ardeat» suggestivamente cantato da un coro di voci bianche con un andamento molto lento, così da accogliere gli inserti funambolici del violino supportato da fisarmonica e chitarra elettrica); e non mancano quattro ‘odi’ appositamente composte (ma nella replica di cui qui si riferisce se ne sono sentite solo tre), eseguite da uno speaker (Paolo Romano), una pop-singer (Renata Fusco) e un pianista pop (Mimmo Napolitano) collocati in platea.
Fin qui l’invenzione desimoniana può risultare interessante, anche se non del tutto convincente: gli innesti, infatti, sono di qualità diseguale (piuttosto gratuite paiono le ‘odi’), e l’insieme resta alquanto statico e privo di un ‘respiro’ scenico coerente. Ben più discutibili sono però gli interventi operati sul tessuto stesso della musica dell’Olimpiade. Nelle dichiarazioni affidate al programma di sala, De Simone offre una giustificazione teorica della propria invadenza. Il suo ragionamento si può sintetizzare così: la sapienza improvvisativa con la quale i cantanti eseguivano i ‘da capo’ delle arie primo-settecentesche è irrimediabilmente perduta e del tutto inattingibile; pertanto, piuttosto che indulgere al «finto antiquariato» di tante esecuzioni filologiche, meglio gestire le ripetizioni della prima parte di ciascun pezzo chiuso in modo originale, creativo e ‘moderno’. Alla premessa utilizzata in questa argomentazione si potrebbe obiettare che l’opera del secolo XVIII non è la musica dell’antica Grecia, che Pergolesi è contemporaneo di Händel, e che, se non si può coltivare la pretesa di far rivivere in modo assolutamente fedele le partiture di quell’epoca, è pur vero che molto si sa — o si può legittimamente ipotizzare — intorno alla prassi esecutiva che le caratterizzava.
Ma il teatro non vive di dichiarazioni astratte più o meno condivisibili: ciò che conta è l’esito finale offerto allo spettatore. Vediamo dunque cosa fa in concreto De Simone. Le arie pergolesiane presentano una struttura consueta: una parte iniziale contenente due ampie enunciazioni della prima strofa di testo (A+A1), un più stringato segmento centrale per la seconda strofa (B), e la ripetizione — prescritta ma non scritta — del doppio pannello iniziale, che il cantante deve abbellire estemporaneamente. In Pergolesi in Olimpiade, le prime due sezioni si ascoltano nella forma originale (anche se in qualche caso De Simone aggiunge strumenti estranei), mentre il ‘da capo’ viene quasi sempre sottoposto a un doppio straniamento: l’orchestra suona l’accompagnamento come se niente fosse, ma nella ripetizione di A la voce lascia il posto a uno strumento concertante (sax, xilofono, fisarmonica, ottavino, chitarra elettrica a seconda dei casi), mentre nella ripetizione di A1 il cantante si impegna in ‘variazioni’ di gusto indefinito, dominate dall’uso della sincope, dallo sminuzzamento dei valori ritmici, dalla dilatazione della tessitura e dalla libera ridisposizione delle parole. Questo trattamento — che viene risparmiato soltanto alla straordinaria «Se cerca, se dice» di Megacle — produce effetti musicalmente incerti e si ripete in modo meccanico, così da risultare ben presto prevedibile e scontato nonostante la varietà dei colori timbrici. Sia chiaro, il giudizio appena formulato non discende da una concezione museale e feticistica della scrittura pergolesiana autentica: ben vengano le rivisitazioni e le musiche al quadrato! Ma non sempre l’esperimento riesce, e in questo caso ci pare di poter dire che l’occasione sia andata in gran parte sprecata. Meglio sarebbe stato un intervento ancor più radicale, con un ‘da capo’ interamente riscritto. E invece la convivenza tra traccia orchestrale originale e superfetazioni contemporanee genera un ibrido sghembo, segnato da interferenze irrisolte, nel quale gli ingredienti ‘antichi’ risultano svuotati e defunzionalizzati ma il tratto ‘nuovo’ stenta a trovare senso ed equilibrio.
I ‘da capo’ così riorganizzati non valorizzano — e talvolta mortificano — le voci dei cantanti, peraltro tutti notevoli e tutti giustamente applauditi: ottime, in particolare, Maria Grazia Schiavo (Aristea), Annamaria Dell’Oste (Megacle) e Laura Polverelli (Licida), ma molto bravi anche Francesco Marsiglia (Clistene) e Mark Milhofer (Aminta), Raffaella Milanesi (Argene) e Rosa Bove (Alcandro). Alla guida dell’orchestra, disposta in due ‘cori’, uno specialista di cose settecentesche come Alessandro De Marchi, che tuttavia, posto di fronte a una partitura tanto eterogenea, non ha avuto la possibilità di esprimere pienamente la sua solita incisività. Belle le scene bianchissime di Mauro Carosi, che ha portato gli strumenti sullo sfondo e i cantanti in prima linea. Fantasiosi, vaporosi, deliziosi i costumi di Odette Nicoletti.
Napoli, Teatro di San Carlo, 23 gennaio 2011