La ritualità ciclica dell'amore, con quella sfumata fenomenologia che va dall'ossessione all'assenza, passando per la compulsione e la psicosi, in diciotto frammentarie scene di interiorità borghese.
La riunificazione delle due Coree – dall’originale francese di Joël Pommerat, un testo proposto per la prima volta nella traduzione in italiano di Caterina Gozzi e per la regia di Alfonso Postiglione, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia-NTFI 2015 – è un titolo che inganna dicendo la verità, perché il riferimento alle questioni di macropolitica è offuscamento linguistico dietro cui celare l’analisi di un sentimento, condotta attraverso la filologia del suo opposto. Così, Pommerat, astro nascente della drammaturgia francese, svela subito le sue carte e, giocando sull’impossibilità comunicativa e sui cortocircuiti relazionali, indugia sulla discrepanza tra la percezione dell’amore e la realtà delle cose, mascherando il piacere con una patina di compiaciuto dolore.
Tutti i personaggi sono principianti della vita, impreparati nel capirsi e farsi capire, dall’uomo in carriera che violenta l’assistente a sua insaputa, al medico preso d’assalto dalla figlia del paziente moribondo, dal maestro di scuola con attitudini pedofile e pericolosamente vicine a una pretesa di purezza, al promesso sposo che riesce a sedurre tutte le sorelle della futura moglie, dalla coppia che riesce a mantenere una parvenza di unione solo grazie ai figli mai nati, alla ragazza che prepara la valigia per fuggire da qualcosa, non sapendo spiegare il perché. Queste rappresentazioni si alternano con ritmo serrato, trascinando lo spettatore in un calembour di storie tanto incompiute quanto superficiali, come flussi narrativi interrotti all’incipit o giunti direttamente all’epilogo.
Perfettamente allestita nella Sala Cannoni di Castel Sant’Elmo, la scena è attraversata da stereotipi dell’ampio paesaggio borghese – ben performati da Sara Alzetta, Giandomenico Cupaiuolo, Biagio Forestieri, Laura Graziosi, Gaia Insenga, Armando Iovino, Aglaia Mora, Paolo Musio, Giulia Weber – che esplorano ogni ombra dello spazio, battendo la suola delle scarpe o aprendo ombrelli, rotolando ubriachi o tirando calci a un pallone. All’interno di ogni quadro, i ruoli cambiano vorticosamente, il carnefice assume le sembianze del tradito e ognuno trae piacere nell’offrirsi come vittima. Un cubo luminoso, deus ex machina in sospensione geometrica sul buio della scena, ruota rumorosamente a ogni passaggio di situazione, mischiando i colori e le forme delle storie. Non ci sono punti d’inizio o di arrivo, non si narra l’epopea delle personalità ma si illuminano fiocamente ritagli di vite agite da brandelli di caratteri.
In questo universo monotematico, che svuota il quotidiano dalla profondità del reale, tutti i rapporti si consumano nel fraintendimento a senso unico. I gesti diventano movenze da analizzare in quanto misura di distanze insuperabili, la plasticità dinamica e naturale dei corpi si spezza in pose forzate dalla lontananza, manichini con tacchi a spillo e lunghi impermeabili grigi che provano gusto a sfiorarsi frusciando. Le parole vorrebbero elaborare tale isolamento, invece, lo amplificano nel vuoto, con frasi singhiozzanti e dialoghi strozzati, dove anche il turpiloquio suona come un’introspezione abitudinaria e i momenti di sincerità sono rarefatti.
L’umanità descritta da Pommerat, allora, è ambiguamente viziata e dedita all’incomprensione, di cui l’amore è l’effetto più evidente e facile da ridurre a casistica. Sguardi e dichiarazioni risuonano come faticosi atti di egoismo, l’uomo si aggrappa alla donna che lo stringe solo per non cadere da soli o per scivolare più comodamente insieme, nel baratro della noia. Come se l’individuo non volesse o potesse amare altro da sé – per motivi che il drammaturgo francese ha scelto di non affrontare – in un freddo gioco di seduzione allo specchio.