“Prima del Silenzio” commedia scritta da Giuseppe Patroni Griffi nel 1979, viene ripresa al Teatro allo Scalo per la regia di Federico Vigorito, con Pierfrancesco Mazzoni, Danilo Celli, Sandro Torella.
E’ la storia dell’incontro e della convivenza di un non più giovane cinquantenne e di un giovane che non ha ancora vent’anni. Ad uno sguardo sfuggevole non hanno niente in comune: anagraficamente, fisicamente, e ancora più concettualmente rappresentano due momenti della vita distanti e incompatibili: sono un adolescente e un uomo maturo. Eppure c’è qualcosa che li unisce, che và oltre l’apparenza, e delinea due modi di porsi nei confronti della vita: entrambi si sentono degli emarginati, dei senza posto nella società.
La ragione del dibattito drammatico della piece è nell’uso che entrambi fanno della parola. Questo, diametralmente opposto, vede da una parte le ragioni dell’uomo per cui le parole sono espressioni, comunicazione, creatività, possibilità infinita di far rivivere i ricordi, il passato o meglio focalizzarlo in un eterno presente. In definitiva, le parole rappresentano la capacità dell’uomo maturo di lottare e sopravvivere. Per il ragazzo invece ce ne sono poche e servono semplicemente a constatare ciò che ci accade e ci circonda.
L’azione drammatica prende forza dal loro rifiuto dell’utilizzo di un linguaggio comune che li accompagni nella comprensione e nell’accettazione reciproca.
Il vecchio poeta consapevole del fascino delle parole cerca con tutte le sue capacità di affascinare il ragazzo, nei suoi racconti confonde il presente con il passato dando nuova vita ai morti e gloria agli avvenimenti storici. Il ventenne inizialmente si lascia trasportare ma piano piano inizia a nascere in lui una diffidenza interiorizzata verso quel mondo fatto solo di illusioni e racconti. Inizia così a pensare che quello dell’improbabile amico non è che un tentativo di raggiro, inteso come manipolazione della mente del ragazzo, che il poeta crede ancora innocente e facilmente modificabile attraverso la trasmissione della sua coscienza e del suo seme intellettuale. Il ragazzo allora decide di non cedere a questa forzata trasmissione intellettuale e si oppone con il rifiuto del fascino della parola, con il disconoscimento della magia, con il disincanto dell’illusione, con il silenzio alla parola.
Nei due personaggi appare chiaro anche un altro importante ruolo: la loro specularità nel riconoscimento del loro fallimento.
Il poeta parla di vecchie glorie ma ora è solo e abbandonato da tutti, dalla famiglia e dai colleghi di lavoro. Con le parole giustifica del suo fallimento come la ricerca volontaria di stato, che non poteva altro che condurlo nella solitudine e nella miseria, ma le parole hanno la capacità di rendere affascinanti anche le storie più dure. Il ragazzo sente il peso del fallimento personale prima ancora di averlo vissuto, in questo è il manifesto vivente di un’intera generazione. Proprio per questo sentimento prende la vita così come viene e la affronta con il rancore e la crudeltà di chi è nato sconfitto e sente di non avere nulla da perdere.
A trent’anni di distanza il testo continua a sedimentarsi in noi e farci porre domande: la drammatizzazione dell’incomunicabilità tra generazioni e la descrizione dei rapporti relazionali spesso contorti, sono temi quanto mai attuali e senza ancora soluzione data. Commedia e dramma al tempo stesso: un testo che rappresenta la forza riflessiva della parola, sia essa eloquio o silenzio.
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