Allo Studio Gabelli situato in Galleria Buenos Aires 11 a Milano si inaugura giovedì 24 marzo alle 19 una nuova mostra dedicata all’artista milanese Maurizio Turchet, che da molti anni si dedica non solo alla propria ricerca artistica, divenuta multimediale fin dagli anni ’90 con varie mostre fotografiche, aggiuntesi a opere grafiche, ma ha scoperto una vocazione per il mondo ebraico, che ha studiato e approfondito con numerosi viaggi in Israele. La sua installazione si chiama RAPHAEL ENAMELED e, come spiega l’autore, si ispira al titolo di un’opera di Marcel Duchamp, il francese che rappresentò la pittura-idea, la possibilità di mettere oggetti del quotidiano in modi insoliti e renderli arte col nome di ‘ready made’.
Ma qui l’Apolliaire Enameled è stato sostituito con Raphael Enameled. Raphael è il primo angelo che cura, descritto nel Pentateuco e il termine rofè significa in ebraico ‘medico’. Poiché il curatore e ospite dell’evento è Giancarlo Gabelli, di professione medico, ecco come il titolo modificato omaggi in un sol colpo diversi obiettivi. Turchet ha scritto: «La filosofia europea è erede di Edipo (‘io non sapevo..’) più che di Parsifae, madre del Minotauro: si condanna alla causalità senza possibiltà di redenzione. E ‘Maurizio vieux garçon’, come dice una canzone di Les Negresse Verdes, riesce a sottrarsi alla trappola e ‘perde la ragione’». Alto, magro, capelli sale e pepe, sguardo attento e dolce, sorriso improvviso, carattere introverso ma ospitale, Maurizio si presta all’intervista per raccontarci come mai crea, seguendo obiettivi così complessi.
Se l’ispirazione parte da Apollinaire, che significa Enameled?
Verniciato, smaltato. Perché alcuni degli oggetti esposti sono di fatto ‘smaltati’, cioé ‘enameled’. La vernice è la base della pittura, in quelche modo e Giancarlo ci teneva che io facessi una mostra di pittura, mentre per me è più importante il contenuto, il concept. E in questo caso il concept è una rivisitazione non dell’Apollinaire quanto dell’ebraico Raphael.
Perché?
Perché il mio filo conduttore è di tipo ebraico, perché l’ebraismo guarda più al contenuto, mentre l’arte greco romana guarda di più alla forma, alla decorazione. Questa differenza, questo spostamento, spiega perché ho sostiutio i due nomi ed è proprio la chiave del mio riconoscermi in Duchamp. Posso aggiungere che è proprio grazie ad Arturo Schwartz e al sua modo di leggere questo artista se ho potuto agire così. L’opera di Marcel Duchamp è estremamente ermetica e solo tramite una chiave di lettura lo si può capire, cpme accade con tanti altri artisti dell’epoca. Lui è stato forse il più importante rappresentante di questo cambiamento, questo chiudersi dell’artista all’ovvietà della percezione.
In cosa ti è stato utile Schwartz, gallerista e critico d'arte?
Soprattutto ho letto libri scritti da lui come critico e ho colto questo aspetto, ho ritrovato un’affinità con me. Avevo 17-18 anni. Come quasi tutti quelli che hanno questa malattia per l’arte, a 2 anni avevo una matita in mano e tutti in casa erano tranquilli perché ero praticamente autistico e sono ancora così. Più sono autistici e più sono artisti, i bambini e io forse non lo sono abbastanza... In casa c’erano libri sul surrealismo, sulle stampe giapponesi e queste sono state le due correnti che più mi hanno influenzato, Ukyo-e e il surrealismo.
Hai avuto pane per i tuoi dentini, vero?
Però guardavo certe immagini di Duchamp come una cosa che mi rapiva: mi affascinava per la sua immagine archetipica, che tocca l’inconscio. Ho cominciato a capirne il significato leggendo libri di alchemia e i libri di Schwartz, trovando chiavi di lettura fra questi argomenti.
Ma tu sei diventato un artista classico?
Il mio percorso è stato molto teatrante. Io ho più recitato il ruolo dell’artista e del pittore, che rappresenta dei personaggi, come negli ‘Scapoli della Sposa messa a nudo’ di Duchamps. che io recitavo di volta in volta. Oggi sì, io ho sempre usato molti media, fotografia, proiezioni, facendo indagini sul territorio da cui estrapolare dati, indizi... e seguivo delle mappe, dei tracciati, per arrivare a una deriva di tipo situazionista. Il metodo era quello, per arrivare alla realizzaizione della pietra filosofale. Oggi invece c’è la Rete, c’è Facebook, noi esistiamo quasi più nel virtuale che nel reale.
Che pensi di Internet, da artista?
La rete oggi è uno strumento di espressione che ingloba tutto, anche la multimedialità. Assistiamo alla smaterializzazione completa dell’arte e della vita stessa, in un certo senso.
Perché fai riferimento a Edipo in un tuo scritto?
Il concetto edipico della nostra società esiste, ogni volta che ci consideriamo ‘non colpevoli’ di gravi colpe ‘perché non sapevamo’, come Edipo che uccide il padre ma non sapeva che fosse il padre e sposa la madre con la quale ha dei figli ma non lo sapeva. Però di fronte a quella scoperta si punisce. Noi, in occidente, che cosa abbiamo fatto? Lo stesso e, alla Seconda Guerra Mondiale, gli europei alla fine hanno detto ‘io non sapevo’. Il discorso più generalizzato: ancora oggi i polacchi, i russi, eccetera non sanno che i tedeschi non sono stati gli unici a compiere la Shoah. E ancora oggi si nascondono dietro al fatto di non sapere.
In effetti, esistono perfino i negazionisti...
La società edipica è ignara inconsciamente, si pretende di non sapere in modo di nascondere a se stessi le proprie malefatte, le proprie responsabilità. In fondo Edipo ha solo ucciso il padre, senza sapere che lo fosse. Così la Shoah non è una cattiva azione, è un evento, è troppo al di là del bene deì del male, quindi è soltanto un evento. Ma di cui nessuno si assume una responsabilità, tranne i tedeschi che però affermano ancora ‘io non sapevo’.
Che c’entra il Minotauro?
La storia del Minotauro invece è una storia pornografica, a dei livelli che vanno al di là del raccontabile, è all’estremo limite della pornografia. Ma allo stesso tempo è un mito straordinario che ognuno dovrebbe affrontare in proprio, per conoscere meglio la psiche umana e giungere alla conoscenza del Sè.
E la canzone dei Negresse Verdes?
La canzone si chiama Ooh mama mia, di Les Negresse Verdes, inserita nel film a cartoni animati di Disney ‘La Sirenettta’. L’ho trovata stranamente autobiografica.
Ti ricordi di quel cartone animato?
Lì’ho visto con Magda, la mia fidanzata, nel ’91 e conoscevo il manager dei Negresse Verdes... tutto casuale, ma strano che avessero scelto come nome non Maurice, ma Maurizio.
Ci racconti come hai realizzato questa mostra?
Ho fatto pezzi nuovi evitando di acquistare materiali nuovi, ma utilizzando quanto veniva buttato dalle case di moda, vecchi televisori, vecchi libri, tra i più importanti fra quelli della cultura europea, verniciati di nero esternamente, con rispetto per il contenuto. Poi ho verniciato -enameled- questi espositori di moda delle stagioni passate e li ho rovesciati per cambiarne la funzione e farne parte di questa installazione. Ha doppio significato, questo riportare in vita l’oggetto dismesso: il significato di produrre senza creare nuova spazzatura.
Puoi spiegarti meglio?
Amo la moda ma la trovi più significativa e ora non c’è più: ci sono goffi e fragili tentativi di tenerla in vita ma senz’altro nessun italiano e non c’è... C’è confezione, abbigliamente, ci sono stranezze ma non c’è più lo spirito divertito, creativo, glamorous, clamoroso che ha avuto fino agli anni ’80. In alcuni ambienti, non in tutti.
Non c’è più nulla di bello da ben 20 o 30 anni, dici?
Non tanto bello quanto significativo. Perché l’idea della festa, della tresgressione non è più possibile e ciò che rimane è la costosità. I materiali, più che pregiati, sono costosi e pertanto costano tanto e sono strambi. Ma strambo non vuol dire interessante e ancora una volta è l’opposto di quel tipo di arte che poteva essere di Vivienne Westwood nei primi anni ’60 o di John Galliano, che oggi è un genio storpiato. E non possono fare altro.
Dove sta oggi la moda, secondo te?
Nei grandi magazzini per ragazzi, da Zara o H&M in poi, trovo che il vestito per i giovani sia lì. Non c’è più la festa, ci sono oggi i festini, sacrificheranno le modelle, ma non ha niente a che vedere con la moda come la intendo io. Le modelle sono le vestali da sacrificare nella contemporaneità. Ho attraversato nella mia vita questo argomento, non ora perché non c’è, ma fa parte della mia storia e della mia creatività.
Cosa vorresti che accadesse?
Sto aspettando il Messia... Ah ah ah, va tutto bene, a me. Credo che stiamo vivendo una accelerazione continua che non è solo una nostra percezione ma è planetaria o addirittura cosmica, comunque un fatto oggettivo. Un tempo si viveva una vita, in una vita, invece oggi si vivono milioni di vite... Abbiamo a disposizione una quantità incredibile di informazioni, possibilità di viaggiare, conoscersi, incontrarsi e questo mi basta.