E’ arrivata al termine la stagione 2013, del Silvano Toti Globe Theatre di Roma.
A conclusione del cartellone del decennale, ha debuttato ieri sera, 12 settembre, “Re Lear”, regia di Daniele Salvo, l’ultimo spettacolo previsto per quest’anno nella suggestiva cornice del teatro elisabettiano di Villa Borghese dedicato alle opere di Shakespeare e costruito ad imitazione (non esiste copia del progetto originario!) del Globe Theatre di Londra.
Le repliche di “Re Lear” andranno avanti fino al 22 settembre, con inizio alle ore 20:45 per circa 3 ore di intenso spettacolo.
Nel ruolo del protagonista che da il titolo alla pièce c’è Graziano Piazza; in quello di Gloucester, c’è Francesco Biscione: entrambi attori conosciuti e ben apprezzati. Tutti gli altri interpreti, scrive Daniele Salvo nelle note di regia, sono «attori giovani» e lo spettacolo nasce da un laboratorio di ricerca interpretativa. La scelta è dichiaratamente voluta dal regista, il quale, in maniera forse un po’ agghiacciante, afferma: «Essere giovani artisti oggi, nel nostro Paese, significa affrontare difficoltà di ogni genere, trovarsi di fronte a sbarramenti generazionali, invidie, famiglie massoniche, gruppi di potere, consensi e dissensi predeterminati, essere frastornati e confusi dalle mille sirene del nostro tempo.
Il criterio del risultato e del merito è bandito da tempo nella nostra piccola Italia e il mondo del Teatro, così come quello dell'Arte in generale, è regolato da leggi arbitrarie, violente e faziose che nulla hanno a che fare con la realtà dei fatti. […] La realtà degli uomini del 2000 ha necessità assoluta di Poesia, rispetto, correttezza, professionalità, solidarietà, dolcezza, precisione ed artigianato.»
Forse anche per questo il “Re Lear” è una storia azzeccata per rappresentare tutto ciò.
L’opera del bardo inglese, secondo la definizione del regista, è: «un’analisi puntualissima del Potere e dei suoi effetti sulla psiche umana» in quanto «la lente deformante dell’ego e del dominio acceca gli occhi del sovrano e del politico e lo spinge al più totale isolamento affettivo.»
La storia di "Re Lear" è ben nota; forse è una di quelle più riuscite da parte di Shakespeare, sia per l’aspetto strutturale (evidentemente ben studiato ed equilibrato), sia per i toni apparentemente fiabeschi che nella prima parte l’opera sembra avere (e che in effetti rimanda a tanti racconti e leggende su padri e figli presenti in ogni parte del globo terrestre), sia per il finale ovviamente tragico. E’ una delle pièces forse più truculente del bardo inglese, sia per l’aspetto emotivo e supernaturale (a cui l’opera rimanda) tipico dell’epoca elisabettiana in cui temi medievali e rinascimentali convivevano e che sono entrambi sistemi di valori che nel “Re Lear” crollano, sia per la terribile serie di torture e omicidi che si susseguono.
Daniele Salvo commenta così la storia di Lear: «Lear è un leggendario sovrano della Britannia, vissuto alcuni secoli prima di Cristo che, vicino alla vecchiaia, decide di dividere il suo regno tra le figlie e i mariti, pur mantenendo la sua autorità regale. E' la tragedia dei padri incapaci di capire i loro figli, padri che sono ciechi di fronte all'adulazione dei figli che li vogliono ingannare e ciechi di fronte alla devozione dei figli che invece li amano. Lear pagherà i suoi "errori politici" a caro prezzo: non riconoscerà l'affetto e la sincerità di Cordelia e affiderà il potere nelle mani sbagliate con effetti distruttivi.
Sino a quel momento Lear aveva potuto dettare leggi e norme. Improvvisamente la sua vita viene sconvolta da un'esperienza che lo pone non dal punto di vista del dominatore ma del dominato. Lear si rifugia così in una sorta di "seconda infanzia" che gli procura un'innocenza che rende ancora più crudeli le azioni delle due figlie Goneril e Regan e nel momento in cui finalmente inizia a dire la verità viene considerato pazzo.»
Una situazione problematica con i figli la subisce anche il conte di Gloucester. La storia di Lear e quella di quest’ultimo sono legate non solo da rapporti di potere, ma anche dalla costruzione strutturale che (l’ormai esperto) Shakespeare ne ha fatta: due storie compiute intrecciate tra loro, nelle quali è come se il conte fosse un alter ego del sovrano e di cui l’una incide fortemente sull’altra.
Le similitudini sono evidenti. Entrambi hanno dei figli buoni e altri cattivi. Lear ha tre figlie. Due (Regan – interpretata da Silvia Pietta – e Goneril –interpretata da Marcella Favilla) si coalizzano per distruggerlo. Solo una (Cordelia – interpretata da Mimosa Campironi) lo rispetta, ma egli non lo comprende. Gloucester ha due figli, di cui uno (l’illegittimo Edmund - interpretato da Marco Imparato) calunnia l’altro (il naturale Edgar - interpretato da Pasquale Di Filippo) e lo fa fuggire per non incorrere nell’ira paterna, poi si schiera contro il padre ed in favore delle figlie ribelli di Lear (per essere, infine, causa del litigio tra le due).
Gloucester vuole aiutare Lear.
Edgar, ormai ridotto in mendicante e finto pazzo diventa prima confidente di Lear, poi aiuta Gloucester, così come Cordelia tenterà di riscattare Lear.
Gloucester viene accecato. Lear, invece, non vede metaforicamente.
Il discorso sulla natura, presente nel “Re Lear”, si rincorre per almeno 3 volte. Inoltre parte degli eventi si svolgono all’aperto: in una landa desolata, sulla scogliera di Dover o in battaglia. Oltre al celebre monologo di Lear, centro del dramma ed apice della sofferenza del sovrano, ci sono anche quelli di Gloucester nel I atto, in cui preannuncia gli eventi, e poi quello di Edmund a commento del padre e che, più razionalmente, fa notare come si abbia l’abitudine di incolpare la natura per azioni che riguardano l’uomo.
Non bisogna dimenticare che il testo è stato scritto da Shakespeare in un’epoca nella quale in Inghilterra le credenze filosofiche e religiose medievali ancora vigevano e convivevano con le nuove mode rinascimentali oltre che con teorie filosofiche e scientifiche più razionali (che in territorio anglosassone hanno trovato terreno fertile prima che altrove) e con il puritanesimo che si faceva sempre più strada.
René Girard in “Shakespeare. Il teatro dell’invidia” sostiene che, in questa pièce, drammatico ha esattamente lo stesso senso di mimetico e che re Lear, invitando le tre figlie a manifestare il proprio amore per lui, invece di prevedere la rivalità mimetica tra loro, la provoca egli stesso proponendosi quale oggetto di un desiderio competitivo. Abdicando abdica sia come re che come padre e la prontezza con cui Goneril e Regan partecipano al suo gioco le condanna a subire la sua stessa sorte: Cordelia muore ingiustamente perché rifiuta di abboccare all’esca mimetica; mentre invece le sorelle muoiono per la ragione opposta.
Come nota lo studioso, la distruzione o l’indebolimento di ogni legittima autorità è un tratto ricorrente nel teatro di Shakespeare e molto spesso ha luogo con il concorso attivo dell’autorità stessa, ma la particolarità della tragedia del “Re Lear” sta nel fatto che unisce le due dimensioni della crisi mimetica: quella familiare e quella politica. Fintanto che Lear è presente, pur solo in qualità di capro espiatorio, le due sorelle rimangono unite, se non con lui e in lui, almeno contro di lui. Fintanto che il Degree sopravvive, la mediazione rimane esterna, ma subito dopo il suo annientamento, essa diventa interna e trasforma le due sorelle in due doppi mostruosi, votati alla distruzione reciproca. Dall’inizio alla fine tutto in loro è rivalità, compresa la scelta dell’amante, Edmund. Ed infatti, litigheranno irrimediabilmente per averlo come amante/marito.
Anche Jan Kott in “Shakespeare nostro contemporaneo” concorda nella brutalità di questa pièce sottolineando come Re Lear discenda la grande scala lentamente, un passo dopo l’altro, per scoprire tutta la crudeltà del mondo sul quale regnava e che non conosceva, fino a toccare il fondo dell’amarezza: l’intero ordine sociale, dal regno alla famiglia, va in frantumi. Non esistono più né il re né la corte, né i sudditi, né padri né figli, né mariti né mogli. Ci sono solo delle grandi fiere rinascimentali che si divorano a vicenda e quattro mendicanti che vagano per la campagna: Lear, Gloucester, Edgar e Kent (interpretato nella pièce da Elio D’Alessandro). Cade tutto ciò che distingue: cariche, posizione sociale, pesino il nome.
Per lo studioso polacco, grottesco, tragico e quasi assurdo sono i contrassegni della pièce. E come dargli torto? Follia e pantomima la fanno da padrone.
Viene distrutto l’ordine dei valori, senza possibilità di redenzione religiosa, morale o storica, e, per Kott, il sostrato centrale del dramma diventa l’impotenza del buffone.
Quest’ultimo è un personaggio chiave del “Re Lear”, non tanto per la presenza del Fool (interpretato da Selene Gandini), quanto per il fatto che anche Lear compete con lui/lei (e con il resto del mondo che non riconosce la sua autorità) in quanto a pazzia/buffonaggine.
In quest’opera shakespeariana, Lear mostra come la sofferenza porti alla follia: l’anziano sovrano diventa “pazzo” di dolore perché capisce il tragico errore che ha commesso con le figlie.
Poi c’è Edgar che, ridotto in miseria, fa finta di essere pazzo.
Quindi il Fool è “presente” a più riprese e a più livelli in questo testo.
Il Fool/Matto era un personaggio tipico del teatro dell’epoca, ma in questo dramma Shakespeare ha “giocato” con la sua presenza ed il suo ruolo e il regista Daniele Salvo ha valorizzato tutto ciò lasciandolo/-la in scena dall’inizio alla fine della pièce.
C’è poi l’aspetto simil meta-teatrale. Oltre la già ricordata “recita” di Edgar (che si finge pazzo), di Edmund (che finge amore per il padre e poi di essere stato ferito dal fratello) e di Goneril e Regan che fingono amore per il padre solo per avere l’eredità), c’è la tanto tenera quanto grottesca “pantomima” di Gloucester e Edgar: il conte, ridotto in cecità, vuole suicidarsi e chiede al mendicante di accompagnarlo alla scogliera di Dover. Una volta lì, il salto che il finto pazzo Edgar fa compiere al padre è così ridicolo che Gloucester ne resta deluso.
La verità, infine, li porta alla morte: Gloucester non regge quando il mendicante gli rivela di essere suo figlio Edgar; Lear muore dopo aver “perdonato” pubblicamente l’ormai defunta Cordelia e vendicato la sua morte uccidendo il suo carnefice.
“Re Lear” è, quindi, uno spettacolo, complesso e completo.
Nelle note di regia, Daniele Salvo precisa: «Per non distrarre lo spettatore dal lavoro sull'interiorità di questi straordinari personaggi, ho pensato di sottrarre quanto più possibile elementi decorativi, effetti e trovate registiche per giungere ad un'essenzialità e nitidezza interpretativa quanto mai necessaria, a mio avviso, alla messinscena di questo testo. Grazie all'utilizzo di una scenografia davvero essenziale, l'azione viene trasferita su un piano interiore, con momenti privatissimi e tesi, di un'emotività fortissima, pura ed arcaica. Gli elementi naturali dominano: la pioggia, i tuoni e i lampi sono metafora della condizione interiore dei personaggi rispecchiandone l'emotività tormentata.»
La pièce è del 1605-’06, epoca giacomiana in cui si affermò più la tragedia che la commedia e che vede mettere a fuoco i potenti e la corte. Un dramma, quindi, più di parola che di scena (il testo all’epoca shakespeariana debuttò in una sala del palazzo reale di Whitehall, non in teatro!)… ma nell’allestimento di Daniele Salvo, la splendida cornice del Globe Theatre di Villa Borghese, i movimenti scenici (per i quali il regista si avvale della collaborazione di Antonio Bertusi), le essenziali scenografie (di Fabiola Di Marco), oltre che i costumi (di Silvia Aymonino), le musiche (di Marco Podda), le immagini video-proiettate (a cura di Indyca) e le luci (di Umile Vainieri), ne fanno uno spettacolo godibile e degno di questo nome.
Daniele Salvo è abituato da tempo alle tragedie shakespeariane sul potere – ricordiamo quella dello scorso anno sempre al Globe Theatre sul “Giulio Cesare”, nuova versione della pièce già allestita nel 2007, e il “Re Lear” che aveva allestito nel 2008 con Ugo Pagliai nel ruolo del protagonista e Virgilio Zernitz in quello di Gloucester.
Tornando di nuovo all’attuale versione scenica, tanto cruda quanto poetica, del “Re Lear”, il regista conclude le sue note di regia affermando: «Si tratta di un lavoro "sperimentale", low budget, frutto di un laboratorio rivolto a giovani artisti (con l'eccezione di due attori di grande esperienza come Graziano Piazza e Francesco Biscione, nei due ruoli principali), ma non cercate in questa occasione elementi performativi o di ricerca visiva accattivante: non è mia intenzione e non è questa la sede giusta. Intendo invece qui lavorare esclusivamente sull'interpretazione e sulla direzione degli attori, cercando di avvicinarmi al cuore del mistero di questo meraviglioso testo, confrontandomi con umiltà con le grandi interpretazioni del passato, che non vanno dimenticate o rinnegate. In questo percorso ci guidano la follia, l'innocenza, la ricerca, l'energia, la dolcezza e la determinazione propria dei giovani. In questo piccolo e sfortunato Paese, fatto di consorterie, esperti politicanti, specialisti e marionette senz'anima forse, anche solo per una sera, non sarà una colpa essere ancora giovani.»
Altri interpreti della pièce: Marco Bonadei (duca di Cornovaglia, marito di Regan), Simone Ciampi (duca di Albany, marito di Goneril), Alessio Genchi (Re di Francia, marito di Cordelia; poi medico), Diego Facciotti (duca di Borgogna; poi Cavaliere; poi Capitano), Giuliano Scarpinato (Oswald), Matteo Milani (Curan), Matteo Prosperi (Primo cavaliere; poi servo).
E ancora: Francesco Brunori, Francesco Silella, Giuseppe De Siato, Piero Grant, Ruggero Cecchi, Rocco Maria Franco e Nicola De Santis.